80 anni fa Pearl Harbour e la guerra fascista agli USA
Il 7 dicembre ricorre l'ottantesimo anniversario dell'attacco giapponese alla flotta americana a Pearl Harbour, che segnò l'estensione del conflitto europeo iniziato nel 1939.
L'attacco del Giappone fu tutto meno che inatteso: i documenti diplomatici, ormai pubblici , hanno chiarito che almeno dal 1939 la politica estera dell'amministrazione Roosevelt, per motivi tanto ideali che pratici, si era progressivamente preparata a portare gli Stati Uniti fuori dall'isolazionismo, per evitare il rischio di restare isolati fra due blocchi di stati dittatoriali aggressivi, in Europa ed in Asia. In generale, nei 18 mesi dopo l'inizio della guerra in Europa, F. D. Roosevelt non si limitò a prendere posizione sostenendo Francia e Inghilterra, a conferma di decenni di diplomazia USA, ma rese concreta la sua scelta di campo, con l’aiuto operativo alle democrazie occidentali, con le successive formule del “cash and carry” e del “lend lease”, che includevano la collaborazione con la Russia dei Soviet. L'entrata in guerra dell'Italia nel giugno 1940 era stata considerata dal governo e dall'opinione pubblica americana, una manifestazione del cinismo di Mussolini, che aveva aspettato che la guerra lampo tedesca facesse crollare la resistenza francese, per entrare in una guerra che sembrava in quel momento necessariamente vittoriosa.
Nei confronti del Giappone, legato alle potenze nazi fasciste dal Patto Tripartito del 27 settembre 1940, gli USA avevano dispiegato l'usuale pratica delle sanzioni, motivate dalle azioni giapponesi in Asia, considerate a Washington aggressive e in violazione del diritto dei trattati. Dal punto di vista economico gli Stati Uniti avevano esteso il sistema di controllo delle esportazioni verso Tokio e inziato il congelamento dei beni giapponesi negli Stati Uniti. Già nel settembre 1940 l'amministrazione Roosevelt concesse alla Cina in chiave anti nipponica un prestito di 25 milioni di dollari contro garanzia di forniture di materie prime, per poi in dicembre vietare l'esportazione di forniture di ferro ed acciaio se non verso gli stati dell'area delle democrazie. Il governo americano non aveva esitato a coinvolgere il settore privato nelle iniziative anti nipponiche, ad esempio inibendo a petroliere americane e di proprietà straniera il trasporto di petrolio in Giappone (memorandum di Maxwell M. Hamilton responsabile Far East del Dipartimento di Stato al Sottosegretario di Stato S. Welles 23 gennaio 1941). Il governo americano agiva in coordinamento con Gran Bretagna e Olanda nel delimitare il commercio con il Giappone su risorse come il minerale di ferro, il manganese, il petrolio e il cotone ritenuti prodotti utili da un punto di vista militare (Dean Acheson Assistente Segretario di Stato a Cordell Hull 22 settembre 1941).
Dalla nascita a Tokio del governo militarista del Primo Ministro Hideki Tojo, il 18 ottobre 1941, F. D. Roosevelt aveva cambiato il tono della sua comunicazione agli americani, arrivando a dichiarare alla radio: "è arrivato il momento della difesa attiva". Il 7 novembre 1941 Cordell Hull mandò a F. D. Roosevelt un memorandum in cui diceva che "un attacco giapponese è possibile ovunque in ogni momento", basato sulle intercettazioni che i servizi americani facevano del corriere diplomatico giapponese. Il 5 dicembre 1941, due giorni prima dell'attacco, lo stesso Hull ordinò ai diplomatici americani a Tokio e in Oriente di di distruggere il cifrario e gli archivi nell'ipotesi di una crisi repentina col Giappone. Forse i massimi responsabili americani non erano certi della data e dell'obbiettivo iniziale dell'attacco, ma erano convinti che sarebbe stato prima della fine del 1941. In quel periodo si tenne un complesso gioco diplomatico fra inviati giapponesi e ospiti americani, impegnati in una trattativa che sui due fronti si sapeva inutile. Per i nipponici si trattava di stendere una cortina fumogena sulle loro operazioni preparatorie, e per gli americani di non far capire ai rivali che grazie alle intercettazioni il governo americano sapeva perfettamente cosa aspettarsi, e si preparava alla risposta.
Nell'autunno del 1941 il Dipartimento di Stato condusse un'azione diplomatica verso il Giappone con un duplice obbiettivo: dimostrare che gli Stati Uniti miravano ad un'Asia pacifica e libera per il commercio internazionale, e che tuttavia sarebbero stati fermi nell'opporsi ad ogni tentativo egemonico in un'area decisiva per le esportazioni americane. Si intrecciarono le comunicazioni formali con quelle lasciate trasparire con l'utilizzo di codici che i diplomatici americani sapevano essere stati violati dai servizi segreti nipponici. Il 7 dicembre 1941 l'ambasciatore giapponese a Washington, Kichisaburō Nomura, chiese udienza urgente per le ore 13 al Segretario di Stato Cordell Hull, con cui aveva condotto intense trattative nelle settimane precedenti. La delegazione giapponese arrivò con un ritardo di oltre un'ora, a causa della lunghezza del testo che il governo di Tokio voleva trasmettere, contenente tutti i motivi per cui il Giappone riteneva di dover abbandonare la via diplomatica nelle relazioni con gli Stati Uniti. La notizia dell'attacco alla flotta americana arrivò a Hull mentre il diplomatico giapponese era già nell'anticamera , e quando Nomura consegnò la nota ultimativa del suo governo, che ancora non conteneva una dichiarazione di guerra, il segretario di stato fu assai poco diplomatico. Hull accusò con poche parole l'interlocutore e il governo giapponese di avere sempre usato una tattica ingannevole, fatta di comunicazioni false circa le reali intenzioni di Tokio. Nel pomeriggio il primo ministro giapponese Tojo convocò l'ambasciatore americano in Giappone Joseph C. Grew, per comunicargli che il governo Imperiale considerava la nota consegnata a Washington come una risposta all'ultimo messaggio di Roosevelt, senza menzionare l'attacco nel Pacifico. Il giorno successivo il Presidente USA ottenne dal Congresso l'approvazione della dichiarazione di guerra contro il Giappone. Il Segretario di Stato Hull nella conferenza stampa di supporto all'iniziativa presidenziale, disse che dopo l'attacco gli USA si sarebbero impegnati non solo ad esercitare la loro influenza morale in favore della pace nel mondo, ma a contribuire in modo diretto e concreto a tale scopo. Confermando di fatto che l'apertura delle ostilità da parte giapponese aveva liberato gli Stati Uniti da ogni dubbio su come muovere per difendere i propri interessi e i propri ideali.
Le relazioni degli Stati Uniti con l'Italia fascista si erano deteriorate negli anni Trenta del Novecento, prima per l'invasione fascista dell'Etiopia, poi per l'opposta scelta di campo dei due governi, e la crisi giunse al culmine con l'attacco di Pearl Harbour. E' interessante rileggere il Diario di Galeazzo Ciano, ancora Ministro degli esteri di Mussolini, che il 3 dicembre annotava: "Colpo di scena giapponese. L'Ambasciatore chiede udienza al Duce e gli legge una lunga dichiarazione sull'andamento dei negoziati con l'America e conclude che sono arrivati ad un punto morto. Poi, invocando la relativa clausola del Tripartito, chiede all'Italia l'immediata dichiarazione di guerra all'America, non appena il conflitto scoppierà, e propone la firma di un accordo per non fare paci separate... Il Duce ha dato assicurazioni di massima, riservandosi di concordare la risposta con Berlino. Il Duce è stato contento della comunicazione ed ha detto: "Ecco che si arriva alla guerra dei continenti: quella ch'io avevo previsto sino dal settembre del 1939". Cosa significa questo nuovo evento? Intanto che Roosevelt è riuscito nella sua manovra: non potendo entrare subito e direttamente nella guerra, vi è entrato per una traversa, facendosi attaccare dal Giappone. Poi, che ogni prospettiva di pace si allontana sempre più e che ormai parlare di molti anni di guerra, è facile, troppo facile profezia. Chi avrà il fiato più lungo? È in questi termini che si deve mettere il problema". E ancora il 4 dicembre "La reazione di Berlino al passo giapponese è estremamente prudente. Forse marceranno, perché non ne possono fare a meno, ma l'idea di tirarsi addosso l'intervento americano, piace ai tedeschi sempre meno. Mussolini, invece, ne è felice" E infine il 8 dicembre; "Una cosa è ormai certa: che l'America entra nel conflitto, e che il conflitto sarà tanto lungo da permetterle di mettere in atto tutta la sua forza potenziale...". Come per altri passi del Diario di Ciano, gli storici hanno avanzato dubbi per la possibile interpolazione nel testo di note successive, volte a presentare l'autore come estraneo alla responsabilità della guerra.
Il discorso con cui Mussolini il successivo 11 dicembre informò gli italiani dell'apertura del nuovo fronte fu acceso e violento, orientato com'era alla abituale necessità del dittatore di identificare un nemico e di attaccarlo personalmente: "...Le potenze del Patto di acciaio, l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, sempre più strettamente unite, scendono oggi a lato dell’eroico Giappone contro gli Stati Uniti d’America. Il tripartito diventa un’alleanza militare che schiera attorno alle sue bandiere 250 milioni di uomini risoluti a tutto pur di vincere! Nè l’Asse, nè il Giappone volevano l’estensione del conflitto. Un uomo, un uomo solo, un autentico e democratico despota, attraverso a una serie infinita di provocazioni, ingannando con una frode suprema le stesse popolazioni del suo paese, ha voluto la guerra e l’ha preparata giorno per giorno con diabolica pertinacia." Molto meno retorico sembra Ciano quando commenta con distacco nel Diario: " ....Mussolini ha parlato dal balcone. Un discorso breve e tagliente che cadeva su una piazza traboccante di folla. .... La manifestazione, però, nel suo complesso, non è stata molto calorosa: non bisogna dimenticare che erano le tre pomeridiane, la gente aveva fame, e la giornata piuttosto rigida. Tutti elementi poco adatti per eccitare all'entusiasmo".
Dal punto di vista americano le dichiarazioni e le azioni di quei giorni si svolsero nel segno dell'ambivalenza fra ideologia e pragmatismo, retorica e operatività. Roosevelt e il suo governo avevano maturato la convinzione che il successo eventuale delle tre potenze nazi fasciste avrebbe emarginato gli Stati Uniti mettendoli in una condizione di inferiorità nella competizione economica. Per questo Roosevelt non aveva certo provocato la guerra, ma si era preparato a condurla insieme alle potenze democratiche, sia per volontà ideale che per interesse pratico, come gli ottanta anni trascorsi hanno poi dimostrato.