Biden e la Cina: il caso e la necessità
L'avvocato Fedeli, amichevole e critico lettore del blog, mi sollecita una riflessione sulla relazione fra Stati Uniti e Cina dopo che il presidente Biden ha ordinato alle agenzie di intelligence degli Stati Uniti di indagare sulle origini del coronavirus. Biden ha dichiarato che la sua amministrazione prende sul serio la possibilità che il virus sia accidentalmente fuoriuscito da un laboratorio cinese, smentendo la teoria prevalente che sia stato trasmesso da un animale all'uomo. Biden ha chiarito che le agenzie di intelligence non hanno sino ad oggi raggiunto alcuna certezza sull'origine del virus, e ha ordinato loro di "raddoppiare i loro sforzi" e di riferire entro 90 giorni. La riflessione su questo recente evento deve partire da lontano.
Passati i primi cento giorni della presidenza Biden, si è ormai delineato se non il profilo che questa assumerà nella storia, quanto meno il metodo che Joe Biden seguirà nei (primi ?) quattro anni del suo mandato. Con i rivali interni e esterni Biden discute, non demonizza ma non arretra rispetto alla sua visione della difesa degli interessi americani. Con questa strategia Biden è riuscito a evitare di restare impigliato nella polarizzata conflittualità interna, dovendo incassare la prima sconfitta solo per l'utilizzo del filibustering a difesa di un Trump che condiziona sempre più il campo repubblicano. Con pazienza e qualche intemperanza ha affrontato la voglia di rivincita della Russia di Putin, con cui si incontrerà a Ginevra fra poche settimane. Con questo metodo ha anche ottenuto dall'Unione Europea il congelamento del trattato commerciale già firmato con la Cina. E proprio la Cina costituirà l'approdo finale della strategia di coinvolgimento di Biden.
Il confronto a distanza con Xi Jin Ping è inevitabile, così come è inevitabile che le due potenze più forti del pianeta dal punto di vita economico e militare debbano relazionarsi in termini di concorrenza e rivalità. Un confronto che avviene nel segno della continuità con la storia recente americana da un lato, e nel segno della inevitabile presa di coscienza della realtà cinese, dall'altro.
Le relazioni moderne fra USA e Cina hanno inizio nel segno di Henry Kissinger. Lo spregiudicato politologo di origine tedesca sbalordì il mondo portando a Pechino a trattare con l'icona comunista Mao Tse Tung, Richard Nixon, il presidente americano forse più tetragono in materia di comunismo. Non si trattò di una dimostrazione di cinismo, come fu invece per i due avvenimenti che condizioneranno negativamente il giudizio che la storia darà di Kissinger: il Cile e il "blood telegram". Si trattò della lucida visione di uno studioso attento delle radici della civiltà cinese contrapposta a quella occidentale, ma con la convinzione che la contrapposizione dovesse necessariamente trovare una composizione concordata. Kissinger, come dimostra il suo saggio-capolavoro "On China", aveva attentamente studiato e riflettuto sulla visione del mondo propria della civiltà cinese, da Sun Tze in avanti. Oltre a suggerire al consigliere del presidente peggio consigliato della storia, una mossa diplomatica quasi unica nella storia del novecento, Kissinger spinse l'America a rendersi conto del realismo con cui i cinesi guardavano e guardano al ruolo della loro composita nazione. Nella storia cinese si è affermata la convinzione che "l'impero di mezzo" secondo la fortunata definizione di Samuel Wells Williams, sia uno dei perni del globo, e per i cinesi è scontato che il loro paese abbia un ruolo primario che le altre nazioni devono accettare. Ed è stato scontato anche nel lungo periodo di crisi durata quasi due secoli sino alla costruzione della Cina moderna. Come ha acutamente osservato Kissinger, nella cultura occidentale le relazioni internazionali sono fondate su basi legalistiche, quelle del diritto internazionale, applicato in politica con la positiva ipocrisia di origine britannica, dalla Gran Bretagna imperiale sino al 1945, e dagli Stati Uniti sino ai giorni nostri. Per la Cina il diritto internazionale è una sovrastruttura priva di senso pratico, mentre quello che conta sono i reali rapporti di forza, gli unici a costituire le basi dell'ordine mondiale.
In questo senso Biden, è l'erede di una continuità politica che trascende il colore politico delle diverse amministrazioni: nel 1995, durante la presidenza Clinton, USA e Cina giunsero ai ferri corti per un motivio banale, la visita dell'allora presidente di Taiwan Lee Teng hui negli USA. Ci furono contatti ravvicinati fra le rispettive squadre navali, che fecero temere uno scontro armato. Poi lo stesso presidente Clinton, giunto al secondo mandato, spinse il congresso ad accordare alla Cina uno status commerciale privilegiato permanente. E non ci fu vera discontinuità fra la politica di Barak Obama del "pivot in Asia" diretta a delimitare gli effetti dell'accresciuta penetrazione commerciale cinese, e la politica di Trump, per cui la Cina è stato il concorrente da depotenziare più che il nemico da abbattere. Negli ultimi trent'anni si è fatta strada negli USA la convinzione che la liberalizzazione economica avrebbe messo Pechino su un percorso graduale verso una sistema di vera libertà economica, se non assoluta, almeno rispettosa delle regole del commercio internazionale. E che il grande paese asiatico avrebbe alleggerito il suo apparato governativo, opaco e ingombrante, in armonia con un ordine mondiale che richiede chiarezza e correttezza, almeno apparenti. Ma tale ottimismo, non condiviso dal Kissinger studioso e consulente, era basato sull'incapacità di intendere a fondo la Cina, e di prevedere come si sarebbero evolute le sue politiche economiche .A partire dal 2003, e per molti anni successivi, la Cina ha mantenuto il tasso di cambio della sua valuta ancorato a livelli artificialmente bassi, dando significativi vantaggi competitivi agli esportatori cinesi. Insieme ai bassi costi della mano d'opera che hanno favorito il trasferimento in Cina di produzioni prive di contenuto tecnologico, la politica cinese ha gravemente danneggiato le aziende manifatturiere occidentali, sorpassate in poco più di un decennio dalle produzioni cinesi. Nel stesso periodo il mercato interno cinese è rimasto, pur di proporzioni gigantesche, problematico per le imprese straniere, ostacolate da una sconcertante serie di vincoli burocratici e di politiche industriali volte a promuovere e proteggere i produttori cinesi favoriti dal partito-stato. Sempre nel 2003, Pechino ha creato istituzioni che le conferiscono un controllo più stretto ed efficiente sulle imprese statali, sull'assegnazione di sussidi, sull'applicazione dei regolamenti e sull'approvazione degli investimenti. In quegli anni gli eredi di Deng Xiao Ping hanno creato il "capitalismo di stato", che pur in presenza di un fiorente settore privato, rimane sotto il controllo del Partito Comunista, che del progresso economico ha fatto il proprio elisir di lunga vita, a differenza degli omologhi di tutto il mondo.
L'economia globale è caratterizzata da una grande rivalità fra USA e Cina, con quest'ultima avvantaggiata dalla stabilità del suo gruppo dirigente, che consente di procedere con iniziative di lungo periodo, come la "Belt and Road Initiative". La tendenza dei fondamentali del commercio resta tuttavia costante, nel senso che USA e Cina continuano ad aumentare il loro interscambio, sia pure con un durevole beneficio per la parte cinese. L'evoluzione dell'economia americana include, pragmaticamente, la collaborazione con la Cina, come è evidenziato ad esempio dal fatto che la metà dei maggiori (fatturato superiore al milione di dollari) rivenditori sulla piattaforma Amazon sono cinesi. Questa evoluzione è continuata durante il mandato di Trump, che concentrandosi sui dazi ha finito per perdere di vista la dinamica strutturale dell'economia internazionale. E nei primi mesi della presidenza Biden, l'aumento di liquidità per la classe media americana, indotto dai provvedimenti presi per favorire la ripresa economica, si è tradotto in un immediato aumento del fatturato delle aziende esportatrici cinesi. La continuità delle relazioni commerciali è evidenziata anche da un altro esempio, il mercato dei semi conduttori. I colossi americani del digitale hanno in larga misura rinunciato alla produzione sul suolo americano, profittando dei bassi costi della mano d'opera cinese, e dei vantaggi logistici derivanti dal primato cinese nell'estrazione delle "terre rare" essenziali per quel prodotto. Le considerazioni politiche non hanno impedito questa collaborazione, al punto che persino i produttori di Taiwan si riforniscono di semi conduttori in Cina, spesso con triangolazioni con gli Stati Uniti, contraddicendo le prese di posizione di principio sulla questione delle due nazioni cinesi. In definitiva le necessità del commercio globale sembrano prevalere sulle contrapposizioni politiche.
Il contraddittorio fra i due leader è iniziato con schermaglie diplomatiche (telefonata del 10 febbraio - vertice sul clima di Washington del 23 aprile), per proseguire con un incontro al vertice diplomatico (Anchorage 18 marzo). Gli osservatori ritengono che il prossimo passo nei prossimi mesi sarà inevitabilmente un incontro diretto fra Biden e Xi Jin Ping, dopo l'annunciato un vertice con Putin il 16 giugno prossimo a Ginevra. L'incontro diretto fra i due capi di stato oltre a rappresentare il terminale del lavorio preparatorio, consentirà di passare all'esecuzione della nuova dottrina dell'amministrazione americana in materia di relazioni con la Cina. Non ci deve aspettare altro che la discontinuità nella continuità. In questo senso la richiesta di Biden all'intelligence di indagare sull'origine del covid 19 potrebbe essere pura tattica da parte di Biden: una forma di pressione sulle autorità cinesi e un mezzo per sedersi al tavolo del negoziato dimostrando di saper essere aggressivo.
MATERIALI
H. Kissinger - On China - Penguin Books - 2011
https://foreignpolicy.com/2019/10/04/the-untold-story-of-how-george-w-bush-lost-china/