29 Novembre 2020 Politica estera USA: una ricostruzione bipartisan
Sul futuro del Dipartimento di Stato e della politica estera americana, si apre un confronto a due fra coloro che definiamo “federalisti radicali”, corrispondenti ai liberal e al partito Democratico, e i “liberisti assoluti”, corrispondenti ai conservatori e al Partito Repubblicano.
I due interventi che qui vengono riportati, entrambi di grande pregio, avviano il dibattito sulla politica estera americana, individuando alcuni imprevedibili punti di convergenza: la necessità della totale ricostruzione della strategia geopolitica americana; la centralità del Dipartimento di Stato; l’ineludibile aggiornamento anche metodologico e tecnologico del servizio estero; la revisione del sistema di formazione; la separazione fra appartenenza politica e diplomazia. Non sembra poco, anzi è sorprendente quanto le due visioni siano coincidenti.
Il primo contributo viene dal saggio scritto per la American Foreign Service Association (https://www.afsa.org/on-trust) dall’ormai centenario George Schultz, il più vecchio ex ministro vivente negli USA, già al governo con Nixon, poi Segretario di Stato di R. Regan. L’età e la lontananza dalla lotta politica permettono a Schultz di parlare del ruolo degli USA nel Mondo con distacco, esprimendo la viva preoccupazione per il clima di totale sfiducia, in patria e all’estero. In politica interna la rivalità fra i due partiti è secondo Schultz venata di rancore ciò che provoca disaffezione nei cittadini, che finiscono per reagire quando assistono con sgomento a episodi che rivelano la profondità della sfiducia razziale. All’estero, una sfiducia che rasenta l'ostilità caratterizza le reazioni USA con gli alleati e ancor più con i competitor.
Mentre negli anni ’80 solo la fiducia ha permesso di far terminare la Guerra fredda, quando la minaccia nucleare era rafforzata dalla rivalità ideologica, negli ultimi quattro anni le azioni e i metodi del Presidente Trump non hanno generato alcun tipo di fiducia negli interlocutori stranieri, e reso impossibile il compito della diplomazia americana. Secondo Schultz non basteranno quattro anni per invertire questa tendenza, ritrovare la sintonia con gli alleati e il rispetto dei concorrenti, ma si deve farlo. Iniziando da una approfondita elaborazione strategica, costruendo poi un nuovo approccio all’uso della tecnologia e infine rinnovando il modo di formare i diplomatici. La proposta di Schultz in materia è di trasformare il National Foreign Affairs Training Center in una nuova "School of Diplomacy".
Maggiore competenza e formazione permanente permetterebbero ai diplomatici di assolvere alla loro missione poggiandosi sul solo senso dello stato prescindendo dal partito al governo della nazione.
Con queste misure il vecchio politico conservatore ritiene che gli Stati Uniti ritroveranno la fiducia in sè stessi.
Il secondo intervento è fornito da due diplomatici americani, William J. Burns, ex ambasciatore, poi vice segretario nell'amministrazione Obama, e Linda Thomas-Greenfield, ex ambasciatrice entrata in rotta di collisione con la Casa Bianca, indicata fra le possibili scelte di J. Biden come prossimo Ambasciatore USA all'ONU. Nell’intervento pubblicato su Foreign Affairs (https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2020-09-23/diplomacy-transformation) i due diplomatici esprimono la loro costernazione per avere assistito impotenti all’attuazione negli ultimi quattro anni della ricetta di Steve Bannon di "distruzione dell'amministrazione statale", che ha colpito il Dipartimento di Stato come altre istituzioni governative. Prendendo di mira un immaginario "stato profondo", Trump ha solo indebolito lo stato, mettendo a repentaglio la democrazia del paese e gli interessi dei suoi cittadini.
I diplomatici di carriera sono stati sistematicamente messi da parte ed esclusi dai posti di vertice. In tal modo non solo si è minato il morale dei diplomatici, ma il processo stesso di elaborazione della politica estera, che dipende da esperti apolitici che possano esprimere opinioni anche contrarie alla leadership politica, per quanto scomode possano essere . La diplomazia americana è uscita distrutta da questo periodo, e i due ex ambasciatori ritengono necessaria una trasformazione della conduzione della politica estera che richiede chiarezza di obbiettivi e disciplina nella loro applicazione.
La riforma diplomatica deve partire da una ragionata reinvenzione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, scegliendo con decisione fra ripristino dell'egemonia e ridimensionamento globale, e affidando alla diplomazia statunitense il compito di attuare la rinnovata mission strategica. La diplomazia USA potrà così tornare a mobilitare le coalizioni di alleati per affrontare le sfide transnazionali e garantire una maggiore resilienza nella società americana agli inevitabili shock di eventi come il cambiamento climatico, le minacce informatiche e le pandemie.
Premesso che per Rogers e Thomas-Greenfield non esistono approcci dogmatici all’arte della diplomazia, ma solo percorsi pratici, molte sono le indicazioni sulle misure da prendere: è essenziale per il Dipartimento di stato attrarre, trattenere e investire sui talenti dei suoi uomini. Una diversa gestione delle risorse include il ritorno in servizio di personale selezionato con competenze critiche che è stato costretto ad abbandonare negli ultimi quattro anni; la creazione di percorsi di nel servizio estero, compreso l'ingresso nella carriera da altri rami dalla funzione pubblica; la selezione di americani con competenze uniche (nelle nuove tecnologie o nella salute globale, per esempio) per servire il loro paese con incarichi a tempo determinato. Un'altra iniziativa utile sarebbe quella di creare un "corpo diplomatico di riserva" composto da ex ufficiali del Servizio Esteri e della pubblica amministrazione di medio livello con esperienza professionale che potrebbero assumere incarichi a tempo determinato presso l'amministrazione centrale o all'estero.
Per sbloccare il suo potenziale, il Dipartimento di Stato deve aumentare le sue riserve di personale per affidarsi a funzionari in possesso di competenze diplomatiche e di competenza in aree di crescente importanza, come il cambiamento climatico, la tecnologia, la salute pubblica e la diplomazia umanitaria. Nell'area tradizionale dell'economia, il Dipartimento di Stato può rafforzare le proprie capacità in coordinamento con i dipartimenti del commercio e del tesoro per promuovere gli interessi americani. Il Dipartimento di Stato deve anche ripensare a come e dove investe negli studi linguistici. Oggi una su quattro fra le posizioni richiedenti competenze in lingua straniera è ricoperto da un funzionario che di fatto non soddisfa i requisiti linguistici minimi.
E' necessaria una nuova cultura della diplomazia, di cui le persone sono solo la premessa, decisiva ma parziale. Parte dell'investimento nelle persone significa investire nella tecnologia che consente loro di realizzare appieno il loro potenziale. Un corpo diplomatico più digitale, agile, collaborativo e incentrato sui dati dipende da strumenti di comunicazione più solidi e sicuri. Oggi, troppi diplomatici non hanno accesso a sistemi e tecnologia classificati, ciò che li rende più vulnerabili all'intelligence straniera.
Ma per i due esponenti liberal la tecnologia non può più essere vista come un bene di lusso per la diplomazia. L'ultima grande spinta tecnologica al Dipartimento di Stato è arrivata durante il mandato di Colin Powell come Segretario di Stato, due decenni fa. Oggi il Dipartimento di Stato dovrebbe nominare un chief technology officer che riferisca direttamente al segretario di stato.
Due progetti di Rogers e Thomas-Greenfield vanno oltre la proposta Schultz: la necessità di rimediare ad una segregazione razziale de facto per cui oggi solo 4 ambasciatori su 180 sono afro americani, indice evidente di una selezione negativa del personale diplomatico. Il Dipartimento di Stato, per i due ex diplomatici, dovrebbe semplicemente assumere l'impegno inderogabile che entro il 2030 i diplomatici americani assomiglino finalmente al Paese che rappresentano.
L’altra proposta non presente anche nei progetti Schultz, è la richiesta di un formale intervento legislativo che segua l’azione di riforma interna di Foggy Bottom, il nome con cui il Dipartimento di Stato viene affettuosamente chiamato dagli addetti ai lavori. Secondo i due ex diplomatici una nuova legge, dopo 40 anni esatti dall’ultimo provvedimento in materia, sarebbe cruciale per rendere durevoli le riforme da loro delineate.
Come si vede è quasi incredibile quanta sintonia e quante idee condividano un uomo politico conservatore ormai fuori lontano da Washington, e due esponenti liberal attivi nella politica estera americana. Se si dovesse giudicare da questi due interventi non dovrebbe essere difficile per J. Biden costruire una strategia internazionale bipartisan. Ma come si sa le logiche della politica spesso non sono del tutto logiche.