Fra D.  Trump e K. Harris, vinceranno gli Stati Uniti
Voci dall'America

Fra D. Trump e K. Harris, vinceranno gli Stati Uniti

Negli anni di elezioni la politica americana diventa un argomento di interesse generale: stampa e televisioni schierano le loro migliori firme e una pattuglia di specialisti offre con sempre maggiore frequenza un'informazione di qualità sul web.

Nelle ultime settimane di campagna elettorale le redazioni e gli inviati sono chiamati a trovare gli indizi premonitari della vittoria di uno dei due candidati, e producono ogni sforzo per identificare lo stato chiave che sarà decisivo, e analizzare le differenze fra l'offerta politica messa in campo dai due candidati. Che sono molto diversi, al punto che si può dire che nella storia elettorale americana mai come oggi i due pretendenti sono così antitetici per immagine e storia personale. La polarizzazione esistente contribuisce a creare un clima da "giudizio di dio", il cui esito dovrebbe preludere ad un cambio nel corso della storia. Perche senza dubbio gli americani sono schierati su fronti radicalmente contrapposti su temi fondamentali del vivere insieme, dall'aborto all'immigrazione, ed è normale che in merito le ricette dei candidati non potrebbero essere più diverse.

L'esperienza dimostra però che, per utilizzare l'inesauribile Lampedusa, quando tutto cambia, tutto resta immutato. Certamente un ritorno alla Casa Bianca di Trump porterebbe gli orologi indietro di quattro anni ad esempio sull'approccio al cambiamento climatico, mentre una presidenza Harris riporterebbe alla prevalenza dell'interesse pubblico e generale su quello privato e particolare.  Ma la storia non si fermerà per la vittoria dell'uno o dell'altra, anche per la banale constatazione che entrambi hanno già vinto un'elezione presidenziale, Trump nel 2016 e Harris come seconda nel ticket vincente nel 2020. Eppure sono ancora lì. La democrazia americana, pur colpita da diversi fattori critici di involuzione, è uscita indenne tanto dal (sicuro) populismo trumpiano che dal (opinabile) radicalismo di Harris. E torna alle urne.

Le elezioni avvengono in un periodo di crisi del sistema democratico americano, che presenta gravi storture, a partire dall'arcaico meccanismo del collegio elettorale che solo negli ultimi ha venticinque anni ha portato due volte alla Casa Bianca il candidato meno premiato dal consenso popolare (2000 Gore vs Bush e 2016 Clinton vs Trump), cosa che era successa solo altre tre volte nella bicentenaria storia elettorale americana (1824 Jackson vs Adams, 1876 Tilden vs Hayes, 1888 Cleveland vs Harrison).
C'è poi la crisi di credibilità della Corte Suprema, dopo che otto anni di cinico dominio repubblicano del senato (2012/202o), hanno modellato una Corte Suprema politicizzata e screditata, che incontra crescente difficoltà nell'interpretare il ruolo di arbitro del sistema giudiziario.
E in crisi è pure il governo federale, pur onnipresente e tentacolare, che sempre meno riesce ad orientare i fenomeni dell'evoluzione sociale, sprovvisto com'è di strumenti normativi adeguati  per controllare con fenomeni come la pervasività delle grosse imprese digitali e la diffusione di strumenti finanziari che sfuggono al sistema bancario tradizionale.

Anche sul piano internazionale, il presunto potere imperiale del governo americano si dimostra illusorio. Il ruolo dominante della super potenza USA nel mondo non ha fatto che affievolirsi dalla fine della Guerra Fredda, messo in crisi dal proliferare di antagonisti locali con ambizioni globali e dall'assenza di una visione condivisa all'interno della classe politica. Le cui divisioni si riflettono in una crescente impotenza americana. Il 22 dicembre 1941 a guerra mondiale appena iniziata, il Presidente Roosevelt affidò ad un diplomatico, Sumner Wells, il compito di riunire una commissione multidisciplinare aperta a tutte le aree politiche, che delineasse il futuro posizionamento internazionale degli USA. Da quella commissione uscì insieme all'ossatura dell'assetto internazionale che è durato quasi ottanta anni, anche una convergenza forse irripetibile fra le diverse anime politiche americane. Oggi le cose sono molto diverse. Un esempio minore, ma significativo, é stato sottolineato recentemente da Ian Bremmer. Riguarda le relazioni USA con il Venezuela, una nazione situata in quello che era considerato il "backyard", il cortile di casa.  Dal 2013 gli Stati Uniti hanno cercato invano di indurre il presidente Maduro, a garantire elezioni libere e giuste in Venezuela. L'amministrazione Trump nel marzo 2020 era arrivata ad istruire un processo a Maduro per terrorismo, traffico di droga e corruzione, senza riuscire a portare a termine l'indagine. L'amministrazione Biden dal 2021 ha provato un approccio diverso, revocando parte delle sanzioni, non senza un occhio al prezzo del petrolio, facendo leva "sulla speranza più che sull'esperienza". Anche questa modalità non ha dato alcun risultato, e dopo le ultime elezioni a Caracas, unanimemente giudicate truccate, Maduro ha inasprito la repressione di ogni forma di opposizione. Insomma, cambiano i manovratori e gli stili di guida, non cambia il risultato.

Non si tratta di voler trarre conclusioni generali e semplicistiche, ma di valutare con un certo grado di relativismo quale sia il reale potere che emana dall'ufficio ovale della Casa Bianca, che era una volta considerato il più alto concentrato di potere sulla terra. Oggi in politica internazionale il peso degli Stati Uniti è sempre enorme, ma certo ben lontano dal controllo del sistema. Si è realizzato il monito di J. F. Kennedy: gli USA non hanno il potere di conseguire da soli obbiettivi planetari.

Tuttavia come ha notato il New York Times (e mi è stato fatto notare…) benché tanto Trump che Harris non siano alla prima battaglia presidenziale, è la prima volta dal 1976 (Jimmy Carter vs Gerald Ford) che fra i candidati a presidenza e vice presidenza non compaiono i nomi Bush, Clinton e Biden.  Un segno della fine di un ciclo nella storia americana, e di conseguenza dell'inizio di uno nuovo ? Non è solo una questione statistica. Nel 1986 A. M. Schlesinger jr, erede della teoria storiografica sui cicli , si chiedeva: "visto che l'era elettronica minaccia di fare evaporare i partiti, non sarà anche il ciclo stesso a rischio di evaporazione".? Profezia quanto mai pertinente e aggiornata. Sino ad oggi la democrazia è stata superiore a qualsiasi attacco e a qualsiasi previsione apocalittica, ma il potere digitale, che si chiama Elon Musk ma non solo, è una novità di nostri tempi.

Stiamo ai fatti. In democrazia, ai cittadini americani tocca scegliere a chi affidare il comando del governo nei prossimi quattro anni. Ma insieme a questa scelta, gli americani faranno con i loro comportamenti e i loro movimenti sociali, una serie di altre scelte, fuori dall'urna elettorale. Ci diranno se davvero la rivoluzione femminile si è compiuta e dopo un secolo di voto femminile, e allora forse l'altra metà del cielo avrà finalmente accesso al gradino più alto.  Ci diranno se il potere delle grosse aziende che controllano il mercato digitale potrà essere delimitato dal governo davvero a vantaggio del singolo cittadino. Ci diranno se l'integrazione degli immigrati resterà il più formidabile successo su cui si basa la storia americana. Ci diranno se una società basata in modo feroce sulla meritocrazia riuscirà a sfuggire all'involuzione corporativa e al degrado del suo sistema scolastico. Ci diranno se la nazione in cui il capitalismo ha conosciuto la realizzazione più ampia e perfetta, riuscirà a trovare un antidoto contro l'autodistruzione cui il cambiamento climatico sta conducendo il capitalismo stesso.

Tutte risposte che troveranno alla Casa Bianca un portavoce, ma verranno date collettivamente dall'insieme della nazione.

https://www.nytimes.com/2024/07/22/us/politics/harris-trump-vp-presidential-campaign.html

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