Sei mesi di Biden: il sistema politico rigetta il populismo ?

A sei mesi dall'insediamento è certamente prematuro azzardare un primo giudizio sulla presidenza Biden, anche perché il più anziano fra i presidenti eletti ha sorpreso perfino collaboratori e sostenitori  più accaniti lanciando una serie di progetti di riforma ed investimento che daranno i loro effetti solo nel lungo periodo. E' però possibile cercare di trarre qualche indicazione preliminare riandando ai precedenti offerti dalla storia dei presidenti americani.

Biden ha sconfitto il presidente uscente, evento accaduto solo in dieci occasioni è stato sconfitto mentre cercava la conferma: é successo quattro volte nell'ottocento ( sconfitti John Q. Adams, Martin Van Buren, Grover Cleveland e  Benjamin Harrison) e cinque volte, di cui due consecutive, nel novecento (sconfitti William H. Taft, Herbert Hoover, Gerald Ford, James Carter, George Bush sr.). Significativo e paradossale il doppio passaggio del 1978 e 1982: dapprima Carter, la cui presidenza è una delle più sottovalutate della storia recente, riuscì a battere il subentrato Gerald Ford, parlamentare di lunghissimo corso, membro della commissione Warren, ma figura politica poco caratterizzata a livello nazionale. Quattro anni dopo fu Reagan a sfrattare Carter dalla Casa Bianca, con quella che è stata considerata una delle maggiori sorprese elettorali e il più significativo ribaltone culturale del secolo, insieme al new deal di Roosevelt. In realtà uno studio della mappa elettorale, mostra che mentre Carter ottenne il successo grazie agli stati dell'ovest, in un paese diviso nettamente a metà, Reagan ebbe un'affermazione meno divisiva, conquistando oltre agli stati più affini al messaggio anti establishemnt dell'ex governatore della California, anche alcuni stati tradizionalmente democratici della costa occidentale. E molte delle riforme che Carter mise in cantiere furono poi completate dall'amministrazione Reagan, che ne sfruttò l'onda lunga con la sua proverbiale capacità comunicativa.

In otto occasioni il vice presidente è subentrato ad un presidente che non ha concluso il mandato: nel 1841 John Tyler subentrato a William H. Harrison, nel 1852 Millard Fillmore a Zachary Taylor, nel 1865 Andrew Johnson a Abramo Lincoln assassinato, nel 1881 Chester A. Arthur a John Garfield assassinato, nel 1901 Theodore Roosevelt a William McKinsley assassinato, nel 1923 Calvin Coolidge a Warren Harding, nel 1945 Harry Truman a a F. D. Roosevelt, nel 1963 Lyndon B. Johnson a John F. Kennedy assassinato, nel 1974 Gerald Ford a Richard Nixon, unico dimissionario. I precedenti sono da tenere d'occhio per scaramanzia con un presidente così anziano ai comandi.

Un caso unico e davvero singolare riguarda l'alternanza fra Grover Cleveland e Benjamin Harrison: Cleveland fu eletto nel 1884, poi gli elettori nel 1888 gli negarono la rielezione preferendo Harrison, che ripresentatosi alle elezioni fu a sua volta , battuto nel 1892 dal redivivo Cleveland. Un precedente cui guarda oggi con interesse Donald Trump.

Al di là della cabala le situazioni storico politiche e le personalità di questi statisti sono talmente diverse che è molto difficile cercare di trarre una qualche regolarità da questi numeri. C'è però una chiave di lettura che può essere interessante, ripercorrendo le storie personali dei quarantasei inquilini della Casa Bianca, quella della rappresentanza. Il presidente è sempre uscito dalla classe dirigente politica, che ha sempre finito per rappresentare al di là dello schieramento bipartitico: solo sei otusider sono arrivati alla massima carica senza essere stati alla Camera dei rappresentanti, al Senato o governatori di uno stato.  Tre erano ex militari di carriera, Zachary Taylor (eletto nel 1849) , Ulysses Grant (1869)e Dwight Eisenhower (1953), che guadagnarono la fiducia della pubblica opinione grazie alla fama di condottieri vittoriosi e di uomini d'ordine. Dal mondo delle lettere arrivarono un insegnante Chester Arthur (1881), e un giornalista Warren Harding (1921), che la storia americana ha presto dimenticato. Infine il populismo violento del terzo millennio, unito alle sconfinate possibilità di convincimento quando non di manipolazione offerte dal www, consentirono al costruttore D. Trump, già amicone di tutti i presidenti tranne B. Obama, e di politici di ogni estrazione, di presentarsi come il campione dell'anti politica, intenzionato a ridimensionare il potere di politicanti e burocrati a Washington. La città in sè lo ha ripudiato, dandogli meno del 10% dei suffragi nelle elezioni presidenziali, ma come dimostra la storia recente anche una parte decisiva dell'elettorato nazionale, che nel 2016 aveva seguito Trump, è venuta meno al momento della rielezione, delusa da comportamenti non in linea con le premesse. O più semplicemente da false promesse impossibili da mantenere.

Su quarantasei presidenti solo sei non selezionati all'interno della classe politica. Un record per una nazione che periodicamente ha invocato, e creduto di trovare, un antipolitico che rappresentasse il popolo a scapito dei professionisti della politica, ben prima che la crisi del metodo rappresentativo condizionasse i sistemi politici democratici di stampo liberale, modellati con diverse forme sulle istituzioni inglesi. Numerosi presidenti hanno cavalcato l'antipolitica, su tutti A. Jackson, i cui mandati rappresentarono in realtà il momento del ricambio dei gruppi politici professionisti e familiari, sostituendo ai membri della "aristocrazia di fatto" uscita dalle lotte per l'indipendenza, i rappresentanti della nascente borghesia mercantile. Diversi furono i propugnatori della lotta alle elites politiche anche fra i candidati sconfitti: fra essi vanno ricordati Robert M. La Follette, Wendell Wilkie e Ross Perot.

Robert M. La Follette (1855 -1925), che fu Rappresentante al Congresso (1885 - 1901), governatore (1901 - 1906) e senatore (1906 - 1925) del Wisconsin, basò la sua carriera su quella che venne denominata “Wisconsin Idea,” una sorta di affermazione della società civile sulla politica, con l'immissione nell'amministrazione di decine di professori dell'Università del Wisconsin per redigere progetti di legge e amministrare l'apparato statale. Originariamente repubblicano, la Follette si costruì una reputazione di nemico dei politicanti a partire dal 1891, quando denunciò che il Presidente del partito nel Wisconsin, il senatore Philetus Sawyer, gli aveva offerto una tangente. Per i successivi sei anni La Follette si dedicò ad organizzare una fazione repubblicana in competizione per il controllo del partito, coalizzando immigrati scandinavi, allevatori di latte, giovani e politici scontenti. In parlamento durante il dibattito sull'Aldrich-Vreeland Currency Act, La Follette sostenne che l'intera economia era dominata da una ristretta élite riferibile ai maggiori gruppi bancari e finanziari, come J.P. Morgan e Standard Oil. Nel 1909 La Follette fondò la testata La Follette's Weekly, che sarebbe poi diventata The Progressive, riuscendo a diffondere le sue idee ben oltre i confini del Wisconsin. Ormai leader dell'opposizione repubblicana alle politiche tariffarie, del Presidente Taft, La Follette fu fu alla testa di un movimento oggi quasi incomprensibile, ottenendo il sostegno di gran parte dei progressisti, da cui accettò la candidatura presidenziale nella lista indipendente nel 1924. La coalizione che La Follette mise in campo ebbe il sostegno di diversi gruppi di agricoltori, sindacati e di molti vecchi ambienti progressisti, dal Partito Socialista Americano (il cui candidato alle presidenziali ebbe costantemente un milione di voti dal 1912 al 1920) alla catena di giornali Scripps-Howard. Nelle elezioni del 1924, vinse solo lo stato del Wisconsin, ma raccolse quasi 5 milioni di voti, e fu secondo in 11 stati, ottenendo il 16% dei voti a livello nazionale. Durante la campagna, La Follette era rimasto equidistante dai candidati dei partiti maggiori, criticandoli per il loro conservatorismo, e accusandoli di aver portato il sistema economico nazionale a negare i bisogni fondamentali dei cittadini, oltre ad attaccare aspramente la Corte suprema per le sue interpretazioni reazionarie della legge. Nelle urne, temendo che la scelta fosse "Coolidge o il caos", la maggioranza degli elettori scelse l'ex presidente Calvin Coolidge. Meno di un anno dopo, nel giugno 1925, La Follette morì di infarto, chiudendo oltre alla sua carriera, l'esperimento di un partito nuovo e indipendente. Di fatto La Follette cercò per primo di sovvertire il sistema dei partiti, compattando un nuovo schieramento politico, che non ebbe però la forza  di imporsi a livello nazionale.

Wendell Wilkie (1892 - 1944) era un manager formatosi presso la Firestone ad Akron, che divenne in politica interna uno dei più irriducibili avversari di F. D. Roosevelt durante il periodo dell'opposizione della grande industria americano al New Deal. Sono entrati nella storia della politica e del costume americano alcuni suoi scontri verbali con Roosevelt quando Wilkie guidava le delegazioni di industriali in visita al Presidente. Benché fosse originariamente un democratico iscritto al partito nell'Indiana, finì nel 1939 per registrarsi come repubblicano, ottenendo il sostegno del partito fino ad essere designato candidato repubblicano nel 1940, quando il presidente di presentò per un terzo mandato. In un articolo apparso sul Time Magazine di chiara matrice populista ( "We The People: A Foundation for a Political Platform for Recovery") Wilkie delineò i principi di una politica apartitica, imperniata su progresso tecnologico, grandi aziende e manager di successo. Il populismo meritocratico non funzionò e Roosevelt venne trionfalmente riconfermato. Paradossalmente l'ultimo periodo della vita di Wilkie lo vide impegnato a sostegno di Roosevelt in politica internazionale, ambito nel quale i due avevano in comune una visione globale del ruolo dell'economia americana. Nel 1943 il Presidente affidò a Wilkie una lunga missione itinerante in Europa e Asia, che Wilkie poi descrisse in "One World", uno dei libri di saggistica più venduti nella storia americana, con una tiratura di oltre 2 milioni di copie. La sua tesi era chiara: il mondo era "diventato piccolo e completamente interdipendente ...non ci sono più punti lontani nel mondo", scrisse. Secondo la New York Review of Books, otto decenni dopo, "One World" rimane una lettura essenziale, e un antidoto alla deriva rappresentata dall'amministrazione Trump. L'esperimento di Wilkie di realizzare un partito ibrido, repubblicano all'interno e democratico all'estero, non aveva però funzionato, anche perché non aveva avuto la capacità di staccarsi dagli apparati dei partiti tradizionali, che per altri 50 anni avrebbe dominato senza rivali la scena politica americana.

Ross Perot (1930 - 2019) texano, lavorò dapprima nel settore commerciale di IBM, dove è rimasto insuperato per aver raggiunto nel 1962 il suo target annuale in soli 19 giorni, ebbe fra i primi l'idea di fornire assistenza al software dei computer, risolvendo i problemi delle aziende nell'utilizzo della tecnologia. Dopo aver presentato il progetto ai dirigenti della IBM, che lo rifiutarono, fondò la società EDS (Elctronic Data System) che sviluppò sino a farla diventare a diventare leader globale, in base a rigidi principi di qualità, etica e contenimento dei costi. Dopo aver venduto la sua creatura, e creato un clone (Perot System), ormai miliardario, il texano vide la possibilità di introdurre i suoi principi nel sistema politico, quando risolse al posto del governo federale la crisi dei suoi dipendenti ostaggi dei miliziani iraniani. A metà degli anni 70, EDS era uno dei principali fornitori del governo dello Scià, per il quale gestiva il sistema sanitario e lrga parte dei informatici. Quando le violente proteste contro lo scià sfociarono in rivoluzione, Perot decise di evacuare 130 dipendenti EDS con le loro famiglie, ma alcuni di essi furono arrestati e imprigionati: Perot si impegnò a riportare a casa i suoi uomini. Dopo che gli sforzi diplomatici fallirono, il manager mise insieme una task force con competenze politiche e legali, guidata da un ex colonnello dell'esercito, Arthur "Bull" Simons, e organizzò dalla Turchia un raid per liberare i prigionieri, che furono avventurosamente traferiti da Perot fino a Istanbul, prima di tornare negli Stati Uniti. La storia dell'avventura iraniana divenne la base del libro "On Wings of Eagles," di Ken Follett, e di un film per la TV con Richard Crenna nel ruol di Ross Perot. In una nazione ancora preda della crisi di identità a causa della guerra del Vietnam, della fine tumultuosa della presidenza Nixon e del primo shock petrolifero, Perot pensò che il miracolo di Teheran potesse essere ripetuto liberando Washington dai politici di professione. Candidato dal Indipendent Party alla presidenziale del 1992, Perot con una spregiudicata campagna mediatica seppe catturare l'attenzione degli elettori affamati di un candidato nuovo, che prometteva di stimolare la crescita economica, creare posti di lavoro, combattere sprechi e abusi nel governo, semplificare il sistema fiscale e affrontare efficacemente l'istruzione e la povertà. Finì terzo con circa il 19% dei voti nazionali, pari a circa 20 milioni di voti, la metà di quelli di ciascuno dei due partiti maggiori, con quello che resta il miglior risultato di un candidato indipendente dai partiti nella storia americana. Pur accusato da destra di avere favorito la vittoria di Clinton sottraendo voti allo schieramento moderato, Perot ritentò nel 1996, stavolta alla guida di una formazione da lui interamente controllata (Reform Party) senza riuscire, con 8 milioni di voti, a ripetere il risultato precedente, e ottenendo solo di rinfocolare le polemiche sui voti sottratti al candidato repubblicano Dole. Paradossalmente quattro anni dopo nella medesima posizione e sottoposto alla medesima accusa, si ritrovò il candidato della sinistra (Green Party), Ralph Nader, leader storico dei consumatori americani, che ottenne 2 milioni di voti, mentre la distanza fra George Bush jr e Al Gore fu di 50.000 voti a favore dello sconfitto Gore, che ottenne però nel sistema a due livelli delle elezioni presidenziali USA, 5 voti elettorali meno del suo avversario.

La storia recente ha infine proposto un candidato, Donald Trump, schiettamente populista, prima vincente poi sconfitto, in contrapposizione ai rappresentanti della politica tradizionale, Hilary Clinton e Joe Biden. La vittoria di quest'ultimo nel 2020 ha interrotto una spirale che stava portando gli Stati Uniti verso una vera e propria crisi istituzionale, con il ribaltamento delle alleanze internazionali, la sfiducia crescente e priva di distinzioni verso la classe politica e ogni burocrazia statale, e una confusa politica di ritorno alle origini mitiche dello stato (make America great again). Certamente nella storia americana degli ultimi dieci anni c'è molto altro, ma le linee essenziali dell'avventura trumpiana non si distanziano molto da questo. Trump ha cavalcato insieme il risentimento di una frangia estrema contro le elites dominanti, la disillusione verso la globalizzazione di ceti medi e medio bassi colpiti dalla crisi economica. Allo stesso tempo Trump ha sfruttato la crisi del partito repubblicano, incapace di continuare a difendere il liberismo esasperato che da Reagan in avanti ne ha contraddistinto la politica economica. L'ambiguità del tycoon amico dei miliardari ed egli stesso miliardario, che prometteva il riscatto ai diseredati e agli esclusi dalla grande baldoria finanziaria, è stato messa a nudo dalla proposta politica più tradizionale e trasparente di Biden. A sorpresa nel 2020 è stato vincente un profilo più vicino alla classe media, con obbiettivi che si sono rivelati ambiziosi e a lunga gittata, sia in politica interna che sullo scenario mondiale. Ancora oggi gli analisti non hanno prodotto una spiegazione convincente del movimento elettorale 2016/2020, e sembrano alla ricerca della pietra filosofale, visto che una delle più recenti conclusioni di un istituto rinomato (Pew Research Center) è che siano stati gli uomini sposati a determinare il risultato:  infatti gli uomini sposati, tradizionalmente conservatori, sarebbero passati dal voto al 62% per Donald Trump e al 32% per Hillary Clinton nel 2016, al 54% per Trump e al 44% per Joe Biden lo scorso anno. Questo balzo di 12 punti per il candidato democratico non sembra spiegare con certezza l'evoluzione passata dell'elettorato, né dare indicazioni assolute sul futuro. Anche perché secondo la stessa ricerca il 90% del corpo elettorale avrebbe confermato nel 2020 il voto del 2016, indicando una flebile ancorché determinante massa in movimento.

La vittoria di Biden, e l'eventuale successo del suo programma, potrebbero allontanare ulteriormente il rischio della deriva populista, mentre Trump sembra voler suonare ancora lo stesso partito del 2016, condizionando il partito repubblicano con l'utilizzo delle frange estreme e dei populisti, anche attraverso un uso radicale quanto pericoloso dei media. Lo spazio dell'anti politica si restringe quindi all'ipotesi proto repubblicana di Trump e la possibilità di un terzo partito. Ma nella realtà elettorale americana sembra esserci spazio solo per i due partiti maggiori. Se è vero che solo il 38% degli americani è indipendente, mentre il 31% starebbe con i democratici e il 26% con i republicani (Pew Research Center - dati 2018), è anche vero che questa maggioranza non si fonde in un blocco elettorale. Infatti secondo le analisi (Ballotpedia) esistono solo tre formazioni presenti in più di 10 stati, mentre Democratici e Repubblicani sono presenti ovunque: Libertarian Party (35 stati), Green Party (22 stati), Constitution Party(15 stati). Il peso politico di queste formazioni finisce per essere in sé quasi insignificante per effetto del sistema elettorale, se non fosse che in un sistema bipartitico a forte polarizzazione, anche pochi voti indipendenti fanno la differenza fra i due contendenti.

Si può concludere che storicamente il sistema politico americano tende ad auto perpetuare la propria classe dirigente attraverso il metodo bipartitico, senza cadere nella monolitica struttura cinese grazie all'alternanza di uomini, partiti e gruppi di influenza, scandita dalle competizioni elettorali. Donald Trump resta un'anomalia, estranea alla dinamica abituale fra i gruppi di potere, convinto com'è che tutto il passato sia da buttare via (Margaret McMillan - Foreign Affairs), e tuttavia è in grado di condizionare uno dei partiti tradizionali, che di fatto è ancora ostaggio della capacità di Trump di aggregare consenso. I primi sei mesi di Biden sembrano poi indicare che gli anticorpi del sistema sono ancora vivi e forse preponderanti, e stanno reagendo a colpi di negoziati bipartisan e di una suddivisione del potere reale  legato agli investimenti federali fra democratici e repubblicani. Forse è quello che intendeva il capo gruppo repubblicano al senato Mc Connelly quando dopo aver contribuito a salvare Trump dall'impeachment disse:  "Trump è praticamente e moralmente responsabile di aver provocato l'assalto al congresso, ma esiste un sistema di giustizia penale e civile in questo paese. E gli ex presidenti non sono immuni dall'essere ritenuti responsabili da nessuno dei due". Nè dal rigetto del sistema politico.

https://lafollette.wisc.edu/images/publications/otherpublications/LaFollette/LaFLegacy.html

https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2018/10/wendell-willkie/572290/

https://www.rossperot.com/life-story/entrepreneur-extraordinaire

https://www.pewresearch.org/politics/2021/06/30/behind-bidens-2020-victory/

https://www.pewresearch.org/politics/2019/03/14/political-independents-who-they-are-what-they-think/