Trattato del Quirinale: eredità politiche e messaggi in codice
Voci dall'Europa

Trattato del Quirinale: eredità politiche e messaggi in codice

Per l'ultimo atto della sua presidenza Sergio Mattarella ha giocato in casa, sino dal nome dell'accordo italo francese, battezzato come Trattato del Quirinale.
Per il Presidente italiano un successo finale dopo essere riuscito a superare il grave incidente diplomatico del Febbreaio 2019, causato dal protagonismo e dall'insipienza dei leaders del Movimento 5Stelle. E anche un ritorno al dettato costituzionale, che prevede fra i poteri del Capo dello Stato la Presidenza del Consiglio supremo per la politica estera e la difesa, che nell'accezione generale e nella prassi corrente si occupa invece strettamente di difesa, e non dei molteplici aspetti di cui è fatta la politica estera.

Aspetti che sono invece tutti presenti nel decalogo di quello che non è Trattato, ma un dettagliato patto di consultazione, accompagnato da un accordo di principio. Del trattato nel senso della "Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati", l'accordo difetta di contenuto giuridico, per la completa mancanza di precise norme da rispettare, limitandosi a enunciazioni generali prive di valore normativo. Sono precisate nel decalogo, le materie sulle quali le parti si consulteranno, con un'aggiunta più organizzativa che regolamentare nel collegato "piano di lavoro":

  1. affari esteri
  2. sicurezza e difesa
  3. affari europei
  4. politiche migratorie
  5. cooperazione economica, industriale e digitale
  6. sviluppo sociale
  7. spazio
  8. istruzione e formazione, ricerca e innovazione
  9. cultura
  10. cooperazione transfrontaliera

I tre protagonisti avevano un interesse politico comune nella conclusione del Trattato in questo preciso momento: della fine del mandato per Mattarella si è detto, ma se il Presidente italiano è certamente uscente, potenzialmente tali sono anche Draghi e Macron, non certi di essere ancora della partita fra un anno, l'uno appeso ad una maggioranza necessaria quanto instabile, l'altro atteso da un voto non scontato nella prossima primavera. In questo senso il trattato rappresenta una sorta di percorso obbligato che le due nazioni dovranno affrontare anche in caso di clamorosi cambi della guardia politica.

L'impressione è che il Trattato contenga comunque due livelli di contenuto coperto, o indiretto.

Primo livello, un impegno sull'Europa: i governi di Italia e Francia, ben consci di vivere in un contesto Europeo a sovranità se non limitata almeno condivisa con le istituzioni comunitarie, fanno una fortissima pressione politica tramite l'accordo bilaterale che replica per la prima volta il datato Trattato dell'Eliseo (gennaio 1963). E nel farlo avviano quasi formalmente la riforma dell'Unione Europea, con la richiesta di abbandonare l'ormai superato sistema dell'unanimità. All'art. 3.5 il Trattato  del Quirinale dice infatti che "le parti favoriscono, ove appropriato e nel quadro previsto dai Trattati dell'Unione Europea, un più esteso ricorso al sistema della maggioranza qualificata per l'assunzione delle decisioni in Consiglio". Malgrado la valenza sminuente dell'inciso, si tratta di un chiaro messaggio a quanti, (patto di Visegradma non solo) dell'unanimità hanno fatto una garanzia di immobilismo e rendita politica. Avendo poi dei potenziali concorrenti interni assai poco arsi dal sacro fuoco europeista (Le Pen - Meloni), il Trattato fa una specie di fuga in avanti su un passo che una volta realizzato sarebbe senza ritorno, con conseguenze difficilmente misurabili sulle dinamiche della politica comunitaria.

Secondo, con il Trattato i governi e le classi politiche che essi rappresentano sui due versanti delle Alpi, mandano un messaggio a diversi interlocutori, sulla solidità del nucleo fondatore dell'Unione Europea; come ha scritto Piero Fassino, il primo trasparente destinatario è la Germania post Merkel, che senza il carisma costruito dalla cancelliera in tre lustri di governo deve trovare un nuovo modo di far pesare il suo potere economico e finanziario. Gli altri due destinatari sono da una lato i concorrenti e dall'altro gli alleati: il (neo) concorrente più vicino è l'Inghilterra di Boris Johnson, ferma nella sua coerente applicazione della Brexit, ma confusa di fronte alla banale verità che in epoca di globalizzazione, è privo di senso cercare di erigere muri, per di più sulle acque del Canale della Manica. A seguire il Trattato è un messaggio al binomio Putin - Xi Jin Ping, convinto della narrativa di un'Europa imbelle e troppo soddisfatta per essere combattiva, e quindi pronto ad invasioni per fortuna al momento puramente commerciali e finanziarie. Un'Europa che ritrovi, a partire da accordi bilaterali, la capacità di coordinarsi in modo permanente ed efficiente, non sarà più né condizionata dalle materie prime del gigante dai piedi d'argilla russo, né la preda inevitabile del crescente, ma politicamente fragile, gigante cinese.

Infine convitato di pietra è l'alleato americano. In 10 mesi di mandato Joe Biden ha più volte ribadito la fedeltà alle alleanze e la priorità dell'asse con l'Europa, ma ha poi fatto passi come l'accordo anglo australiano sui sottomarini in chiave anti cinese, che è stata vissuta anche come anti europea. Ma il Presidente americano, che non si deve dimenticare viene da mezzo secolo di carriera politica largamente trascorsa in epoca di guerra fredda, è sembrato voler proporre troppe e differenti versioni della sua dottrina di politica estera: Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, sostiene che Biden sta continuando molte delle politiche "America First" di Donald Trump. Joshua Shifrinson, professore della Boston University, e Stephen Wertheim, del Carnegie Endowment for International Peace, affermano che la Dottrina Biden è "realismo pragmatico che persegue gli interessi degli Stati Uniti in un mondo competitivo e cambia rotta se necessario per raggiungerli". Jonathan Tepperman, ex caporedattore di Foreign Policy, sostiene  che la “contesa globale tra democrazie e autocrazie” fornisce un “principio organizzativo” per collegare gli investimenti nelle infrastrutture e la politica industriale interna, ma anche il perseguimento di una politica estera per la classe media con la costruzione di coalizioni di democrazie all'estero". Troppe e troppo contrastanti fra loro queste iniziative, in attesa dell'ormai imminente vertice di Washington sulla democrazia.

Il problema è che passare da un quadro e un insieme di obiettivi a un altro senza un insieme di principi e priorità chiari rischia di non permette il raggiungimento dei risultati di cui la comunità internazionale ha bisogno su questioni fondamentali. Come ha scritto Anne-Marie Slaughter (CEO del centro studi New America) "a chi interessa se gli Stati Uniti "battono la Cina" sul piano economico, se poi le nostre città finiscono sott'acqua, la Corrente del Golfo smette di riscaldare l'emisfero nord sui due lati dell'Atlantico, centinaia di milioni di rifugiati sono in movimento,  distruggiamo la biodiversità del pianeta e milioni di persone muoiono per pandemie seriali" ? In questo senso Draghi e Macron, che va sottolineato hanno un comune retroterra culturale in termini di visione economicistica del mondo, mandano a Biden il più importante e saturo di contenuti dei messaggi: su questi 10 temi (il decalogo) l'Europa sarà pronta a unirsi compatta, ma è necessario che ci sia un dialogo fra eguali con gli Stati Uniti. Non a caso nel decalogo fanno capolino due elementi essenziali nelle relazioni internazionali dei prossimi decenni: lo spazio, che finita la corsa un pò romantica e un pò pionieristica del Novecento, è ormai luogo dello scontro internazionale per il controllo di satelliti sempre più determinanti per le nostre vite, visto che consentono le comunicazioni globali. E il cyber spazio, che dalla regolamentazione globale che i giganti di big tech dovranno subire, deve trarre anche le nuove coordinate per la gestione dell'ordine internazionale, tanto in termini di competizione fra stati che di controllo della criminalità.

Tutti temi inseriti nel Trattato come titoli di capitolo, ma al momento del tutto privi di contenuto pratico operativo. Ciò che corrisponde, questa volta sì alla tradizione della storia dei trattati, a quello che disse R. Nixon nel 1972 all'atto della firma dello storico accordo preparato da H. Kissinger con la Cina di Mao Tse Tung: "quel che é scritto nel trattato non conta nulla, conta solo quello che poi, negli anni, si costruirà intorno al trattato" (cit. in E. Serra La Diplomazia in Italia - Franco Angeli).

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