6/1/2021 assalto al Congresso, Donald Trump e Cesare Pavese
Il 6 gennaio ricorre il primo anniversario dell'assalto al Congresso, un giorno di vergogna per la democrazia americana, ma il sentimento non è condiviso da tutta la nazione.
A dodici mesi dall'invasione del Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump nell'insensato tentativo di impedire la certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali del novembre 2020, non solo non è stato possibile chiamare l'ex presidente a rispondere delle sue azioni di quel giorno, ma una parte consistente della nazione non riconosce la realtà di quanto accaduto. Che si voglia o meno parlare di golpe, che si creda o meno alle affermazioni di Donald Trump su brogli elettorali dei quali non esiste la minima prova concreta, il Presidente degli Stati Uniti in carica il 6 gennaio 2021 ha incitato una folla di sostenitori ad assaltare il Congresso, nel dichiarato intento di impedire il funzionamento del meccanismo democratico, resistendo al verdetto elettorale.
La democrazia americana ha resistito grazie ad un pugno di funzionari e agenti di polizia che hanno impedito ai più esagitati (pilotati ?) fra gli assalitori di sequestrare i Presidenti dei due rami del parlamento (Mike Pence e Nancy Pelosi), un repubblicano e una democratica. Ciò non ostante il GOP ha fatto quadrato intorno all'ex Presidente Trump, minimizzando non solo le sue azioni, ma lo stesso assalto, Come se fosse possibile minimizzare 5 morti. Per contro il Partito Democratico si è affidato dapprima al tentativo di "impeachment" postumo dell'ormai ex presidente, e poi ad una commissione parlamentare che malgrado qualche successo mediatico (l'arresto dell'anima nera S. Bannon), non riesce a sfuggire alla tattica dilatoria dell'imputato, fatta di ricorsi, contro attacchi e ribaltamento delle posizioni. Una tattica che in Italia conosciamo bene per essere la medesima utilizzata dall'ex Presidente del Consiglio S. Berlusconi per sfuggire alle sue numerose responsabilità penali.
La decisione di Trump di annullare la conferenza stampa inizialmente convocata a Mar-a-Lago il 6 gennaio 2022, in cui avrebbe dovuto difendere i rivoltosi e ribadire le false tesi sui brogli elettorali è stato il primo segno di debolezza da parte del miliardario iper conservatore. I suoi consiglieri, e numerosi eletti repubblicani hanno in privato sconsigliato l'iniziativa, ufficialmente perché la conferenza stampa "avrebbe fatto il gioco dei media", che secondo la narrativa trumpiana gli sono tutti ostili, a differenza del popolo.
Il richiamo al popolo, al di là della retorica, é un'indicazione che va seguita, per valutare il consenso che Donald Trump continua a incontrare. Un anno dopo quel vergognoso giorno di gennaio, i sondaggi mostrano che la maggioranza dei repubblicani non sente nemmeno il bisogno di riesaminare quanto accaduto. Circa tre quarti degli elettori del GOP continua a vedere Trump con favore, esattamente come un anno fa, e nel Partito Repubblicano, a parte qualche mal di pancia, non è emersa nessuna seria contestazione alla leadership interna di Trump.
Le analisi condotte sull'elettorato repubblicano dal 2007, permettono di distinguere un segmento che è stato definito da Tony Fabrizio, un sondaggista di lungo corso che ha lavorato con i repubblicani dai tempi di Pat Buchanan, "Dennis Miller Republicans", con riferimento al comico conservatore che si vanta di essere sfacciato, sboccato e politicamente scorretto. Il crescente senso di isolamento culturale e la rabbia di questi americani, siano essi conservatori a vita, indipendenti o ex democratici, disegna i contorni di quello che sarebbe diventato il movimento pro Trump. Per la quasi totalità "trumpismo e fedeltà al partito" sono ormai una cosa sola, segnalando una preoccupante deriva di tipo autocratico del sistema partitico. E chiudendo il cerchio, si torna al "popolo", visto che quando un influente notabile repubblicano come il il senatore Rick Scott della Florida, ha detto in un'intervista televisiva che il Partito non appartiene a una sola persona, ma ai suoi elettori, quindi al popolo, permettendo a D. Trump di chiosare: "infatti il popolo preferisce me".
La posizione del Partito Repubblicano pone un problema alla democrazia americana: l'attacco al Congresso non fu un attacco ai Democratici, ma alle istituzioni dello stato ed all'autonomia di tutti i parlamentari. I poliziotti del US Capitol Police non sono caduti per difendere i Democratici, ma tutti i parlamentari e l'istituzione. Se per meri calcoli elettorali il Partito Repubblicano invece di porsi come guida dei propri sostenitori si farà condizionare dai più estremisti fra essi, la democrazia americana corre un serio pericolo. Che non è solo quello di una involuzione, ma di un passaggio dal campo delle democrazie al campo delle semi dittature, in cui la disinformazione prevale sull'informazione, e la smania di potere sulla gestione della cosa pubblica.
Un monito proviene dal passato apparentemente remoto, e paradossalmente da un intellettuale europeo che si avviava a divenire "organico" del più grande Partito Comunista occidentale, il PCI. In "Ieri e oggi", un articolo pubblicato su «l’Unità» di Torino, il 3 agosto 1947, Cesare Pavese scrisse che l'America "Senza un pensiero e senza lotta progressiva, rischierà di darsi essa stessa a un fascismo, sia pure nel nome delle sue tradizioni migliori". Impossibile immaginare un Trump lettore di Pavese, ma va attentamente considerata la premonizione del grande scrittore e conoscitore della storia e della letteratura americana.