La politica estera USA  e gli ebrei d'America
Voci dall'America

La politica estera USA e gli ebrei d'America

Nel descrivere la gravissima crisi in corso fra Israele e Palestina, in cui ha un peso determinante la posizione del governo degli Stati Uniti, viene spesso citata una indefinita "lobby ebraica" che sarebbe in grado se non di condizionare, almeno di influenzare la politica estera americana. Gli interessi della comunità ebraica americana, come degli altri gruppi sociali, sono adeguatamente rappresentati nelle stanze del potere americano. Al pari delle istanze delle imprese che producono e commerciano fra Tel Aviv e Washington. Ma non è facile determinare dove inizi la leggenda e dove finisca la realtà. Non ci sono lavori storici che abbiano cercato di ricortruire i dibattiti interni e le strategie degli ebrei americani sul sostegno a Israele, almeno dalla nascita del movimento sionista.  Certo ci sono alcuni fattori che caratterizzano il modo in cui la comunità ebrea fa sentire la sua voce al governo.

Va considerata innanzi tutto la storia dell'immagrazione degli in America, che avvenne con tre principali ondate migratorie: i marrani dell'area portoghese e pirenaica nell'era coloniale, gli ebrei tedeschi a metà del diciannovesimo secolo e gli ebrei dell'Europa dell'Est all'inizio del Novecento. Ogni ondata era composta da persone determinate a fuggire dal mondo che avevano sin lì conosciuto, nel bene e nel male. Fuggivano sia dalla comunità ebraica europea  che dalla società che la circondava, perché esclusi dalle leggi, dai governi, ma anche dagli stessi vertici ebrei locali. Così la comunità ebraica americana è stata fondata, e inizialmente popolata, in gran parte dagli ebrei più poveri e meno istruiti d’Europa. Molti fra quanti erano radicati nei valori ebraici, non assunsero il rischio della traversata oceanica verso un luogo che era ancora in gran parte selvaggio, senza regole nè garanzie. Quelli che arrivarono, ricrearono una comunità ebraica in America, con una serie di novità, indotte dal mondo nuovo, dove la religione non era stata abolita ma era diventata solo un attributo privato che cementa i gruppi sociali, nella più ampia comunità nazionale (In god we trust).

Su queste premesse si innesta l’assimilazione ebraica nella società americana, che ha portato la maggior parte degli ebrei americani a considerare l’ebraismo meno come una religione e più un carattere personale. Come tante altre componenti innestate sulla multiforme cultura americana, l’ebraismo si è divenuto un insieme di sentimenti, interessi e azioni private e circoscritte, che il singolo cittadino ebreo può adottare o no, a seconda delle circostanze. In questa specifica parte della non c'era spazio per leggende e miti propri del folklore ebraico tradizionale. Nella società americana si salva e propspera solo chi riesce davvero a meritarsi successo e potere, e la comunità si è attrezzata per mantenere le proprie tradizioni e metterle al servizio della riuscita sociale.

In questo processo, a metà del Novecento la storica creazione dello stato di Israele, venne percepita ed interpretata dali ebrei residenti negli Stati Uniti, in modi lontano dal sionismo classico, ma che portarono ad un ampliamento del sostegno attivo a Israele tra gli ebrei americani. Da una lato i sionisti in Europa respingevano l'idea di vivere al di fuori di Eretz Yisrael e desideravano essere restituiti alla Terra Promessa biblica, anche per sfuggire all’antisemitismo. Per contro la maggioranza degli ebrei americani aveva accettato l'idea di vivere nella diaspora, pur onorando chi sceglieva il rientro, e trasformando il sionismo in un sostegno attivo allo Stato di Israele, ma condotto integralmente negli Stati Uniti. Questo fenomeno ha portato rimodellato il sionismo in America, con una costante interazione fra quella che impropriamente viene comunemente definita la lobby israeliana, e lo stato di Israele.

Sono molteplici le forme con sui si esercita la pressione della comunità ebrea sul governo USA, e la conseguente risposta americana in termini di aiuti e sostegno. Ci sono istituzioni come "American Jewish Committee" e "Anti-Defamation League", che sono al tempo stesso cassa di risonanza per supportare la tendenza filo israeliana, e portavoce della comunità nelle relazioni con il governo. Il primo, operativo da oltre un secolo e dotato oggi di 25 sedi in territorio americano e 35 all'estero, non si limita a dettare la linea anche tramite giornali e siti internet.  Negli anni 70/80 del secolo scorso il Committee è stato decisivo per ottenere il sostegno ad operazioni politiche come l'emigrazione della comunità ebraica dalla Russia sovietica. Fra i suoi presidenti nel Novecento, Arthur Goldberg, passato alla storia come ministro del governo di J. F. Kennedy, ma quasi quotidianamente citato nei telefilm polizieschi in quanto estensore, come giudice della Corte Suprema, della sentenza Escobedo sui diritti degli indagati. Il comitato ha un bilancio di oltre 50 milioni di dollari, con un ratio del 15% di costi di acquisizione dei contributi, fra i più basi del multiforme settore della beneficenza a stelle e strisce. La "Anti-Defamation League", di poco più giovane del AJC (1912 contro 1906), combatte ogni forma di antisemitismo, con una specifica attenzione per l'utilizzo dell’innovazione tecnologica al servizio dei suoi obbiettivi. Le sedi newyorchesi di queste associazioni sono tappa obbligata per gli statisti stranieri in visita all'ONU, e mantengono i rapporti con le ambasciate negli USA che aderiscono all'informale "Jewish desk" canale obbligato per i rapporti con la comunità ebrea negli USA.

Oltre al costante influsso sulla linea politica, l'attività di propaganda contribuisce a convogliare verso Israele anche un pacchetto di aiuti economici del valore di 3 miliardi di dollari all'anno, quasi un quinto degli aiuti esteri dell'America.

Il risultato è che il sostegno di Washington a Israele non è venuto meno malgrado le differenze anche radicali fra le le linee politiche dei presidenti succedutisi dopo la seconda guerra mondiale. Amministrazioni totalmente diverse fra loro, hanno mantenuto l'appoggio alla politica filo israeliana, diretto o indiretto. E altrettanto si può dire per il Congresso, che ha costantemente supportato la politica filo israeliana dell'amministrazione in carica, malgrado la crescente divisione e litigiosità che caratterizza il Campidoglio, dove siedono attualmente 9 senatori e 26 rappresentanti di origine o religione ebraica. Significativo il caso dell’emendamento alla legge sul commercio con l'Unione Sovietica approvato dal Congresso nel 1974, che è rimasto nella storia come Jackson-Vanik. La lobby ebraica ottenne che le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Unione Sovietica fossero strettamente condizionate al corretto trattamento da parte dei sovietici della minoranza ebraica, che aprì la strada all'emigrazione degli ebrei russi verso Israele. L'emendamento è ancora in vigore, rendendo di fatto necessario l'appoggio della comunità ebraica per le relazioni commerciali americane con Mosca.

Quando si parla di lobby ebraica si deve pensare più che una classica azione non del tutto trasparente di pressione sul governo, al peso di una comunità che ha conquistato negli anni influenza e peso superiori alla sua consistenza numerica. Ed ha raggiunto questo risultato con un raro bilanciamento fra conservazione delle proprie tradizioni in primo luogo religiose, e assimilazione nella società americana.

https://www.ajc.org/
https://www.charitywatch.org/charities/american-jewish-committee-ajc#ratings-and-metrics
1985 Power and “Powerlessness in Jewish History.

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Di Gianfranco Pascazio
Edizioni l'Ornitorinco

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