La continuità della "dottrina Powell" nella politica estera USA
Gli analisti hanno definito "Dottrina Powell" la filosofia operativa del compianto ex comandante delle forze armate ed ex segretario di stato americano recentemente scomparso, applicata alla strategica politica anche in particolare quando implica operazioni militari. Il teorema è che gli Stati Uniti devono prepararsi ad usare la forza per difendere i loro interessi e quelli dei loro alleati. I corollari sono: identificazione chiara degli obiettivi (politici - militari), sostegno di alleati e pubblica opinione, uso di una forza calcolata immediatamente decisiva.
A dimostrazione della non aggressività della dottrina, venne stilata, ma non sempre calcolata attentamente, una sorta di check list per verificare le condizioni per l'applicazione della dottrina:
- È minacciato un interesse vitale per la sicurezza nazionale?
- Abbiamo un obiettivo chiaro e raggiungibile?
- I rischi e i costi sono stati analizzati in modo completo e obbiettivo?
- Tutti gli altri mezzi di politica nonviolenta sono stati completamente esauriti?
- Esiste una strategia di uscita plausibile per evitare un groviglio senza fine?
- Le conseguenze dell'azione degli Stati Uniti sono state considerate per intero?
- L'azione è sostenuta dal popolo americano?
- Si è formato un vero e ampio sostegno internazionale?
La dottrina Powell è nata in ambito militare nel periodo in cui gli Stati Uniti hanno visto prima indebolirsi e poi implodere il rivale della guerra fredda, la Russia, facendo venir meno qualunque precedente dottrina basata sul dualismo classico amico-nemico. L'unica super potenza superstite della guerra fredda, impreparata e restia a un ruolo di polizia planetaria, aveva bisogno di una visione chiara che ne orientasse l'azione internazionale. A livello militare erano ancora fresche le frustrazioni per l'esito della guerra nel Vietnam, in cui gli Stati Uniti avevano, senza una vera programmazione, intensificato gradualmente l'uso della loro forza, salvo dichiarare pause periodiche ad esempio nella campagna di bombardamenti. Se si deve usare la forza americana, secondo questa dottrina, essa dovrebbe essere prepotente e decisiva. La filosofia strategica che è alla base della dottrina, è coerente con il nel meccanismo costituzionale americano, in cui i compiti sono ben definiti: il governo deve indicare gli obbiettivi politici, i militari preparare con precisione sempre più assoluta i mezzi per il perseguimento dei fini nazionali, e l'opinione pubblica rappresentata dal congresso deve mantenere ed esercitare il controllo dell'esecutivo. In particolare il Congresso ha la funzione essenziale di verificare che gli obbiettivi politici non eccedano i poteri costituzionali della presidenza. All’articolo 1, comma 8 della Costituzione il potere di dichiarare la guerra e di istituire e mantenere l’esercito e la marina viene dato al Congresso, pur essendo il presidente il comandante in capo delle forze armate. Sempre timorosi di derive monarchiche, i fondatori decisero di dare al potere legislativo il compito esclusivo di decidere se e quando entrare in guerra.
Questa esclusività è stata in sostanza sorpassata dalla realtà storica, tanto che negli ultimi 70 anni sono stati aperti numerosi conflitti militari senza aspettare l'autorizzazione del Congresso. Il potere legislativo ha tacitamente accettato questa situazione, per azioni militari limitate e per "operazioni coperte", condotte dal governo con limitata e postuma vigilanza congressuale.
Gli esempi più evidenti di applicazione della dottrina Powell furono l'invasione di Panama del 1989 e la prima guerra con l'Iraq nel 1991 con l'operazione "desert storm", quando le forze armate degli Stati Uniti mossero senza preventivo assenso del congresso, con blitz di pochi giorni finalizzati anche alla cattura del leader locale (Manuel Noriega, Saddam Hussein), personificazione dell'avversario. Si può dire che la dottrina Powell fosse una combinazione di elementi: della visione messianica del ruolo americano nel mondo, della prevalenza della tecnostruttura nelle organizzazioni civili e militari USA, e della volontà di non ripetere mai più gli errori fatti in Vietnam.
Per un contrappasso tipico della storia, la dottrina si ritorse contro lo stesso Powell, quando il generale, chiamato al ruolo di Segretario di Stato da George W. Bush, presentò alle Nazioni Unite delle prove falsificate dall'intelligence americana volte a dimostrare che l'esercito di Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzioni di massa, in applicazione del secondo corollario del suo teorema: ottenere il consenso.
Powell non parlò mai direttamente della questione, ma lo fece Lawrence Wilkerson, che era stato capo dello staff di Powell, in un'intervista nel 2006, con il giornalista Dexter Filkins del New Yorker. Wilkerson disse che Powell sin dall'inizio aveva nutrito dubbi sull'ipotesi di spingere il paese in guerra. Quando Bush gli chiese di intervenire a nome degli USA alle Nazioni Unite per sostenere l'invasione, Powell chiese di esaminare personalmente le prove, che vennero fornite dai vertici della C.I.A., il direttore George Tenet, e John McLaughlin, il suo vice. Ciò che Powell seppe solo in seguito, era che le diverse fonti presentate come indipendenti dall'intelligence, in realtà avevano una sola matrice, piuttosto partigiana: l'Iraqi National Congress, l'opposizione irachena guidata da Ahmed Chalabi, un esule che si era guadagnato la fiducia dei funzionari dell'amministrazione Bush e li aveva convinti della necessità di distruggere il regime di Saddam. Nato come una manovra orchestrata dentro la Casa Bianca, per scavalcare l'opinione di altre agenzie di intelligence, in particolare tedesche, che smentivano le fonti della CIA, l'intrigo di palazzo travolse la credibilità di Powell e la popolarità dell'intera amministrazione. Powell si convinse di essere stato manipolato, direttamente dal presidente Bush e dal vicepresidente Dick Cheney, che avevano già deciso di invadere l'Iraq, e avevano bisogno di giustificare presso l'opinione pubblica la loro decisione. Una volta capito cosa era successo, Powell scelse di non compiere gesti plateali come le dimissioni, non certo per calcolo politico o interesse personale, ma perché nel momento meno luminoso della sua carriera, decise comunque di agire da soldato. Tutto questo spiega prima l'allontanamento graduale di Powell dal Partito Repubblicano e poi il sostegno dato dal generale a partire dal 2006 a B. Obama, H. Clinton e J. Biden nelle successive elezioni presidenziali.
L'episodio, che ebbe conseguenze sanguinose per migliaia di persone, ha avvelenato gli ultimi venti anni della vita di Powell, e descrive in modo eloquente come il sistema di governo degli Stati Uniti dipende dai poteri intermedi che possono influire e persino determinare le decisioni presidenziali estreme come una dichiarazione di guerra, ed è ben lontano dall'essere un monolite basato sulla "presidenza imperiale". Nell'affrontare la vita politica americana é sempre bene cercare di distinguere chi fa cosa, senza cadere nella cieca e stupida dietrologia, che immagina super poteri segreti che agiscono dietro le quinte della politica.
E' lecito attendersi nuove future applicazioni della dottrina Powell, indipendentemente dal la scomparsa del suo ideatore, perché la realtà delle relazioni internazionali del nuovo millennio continua a escludere le opzioni militari allargate per la risoluzione di conflitti delimitati e spesso solo indirettamente collegati al conflitto principale ( vedi caso Afghanistan). La classe politica americana dovrà quindi continuare a confrontarsi con questo lascito di uno più eminenti servitori dello stato degli ultimi cinquanta anni.
https://www.nytimes.com/2021/10/18 https://www.washingtonpost.com/national-security/powell-last-interview
https://www.newyorker.com https://www.atlanticcouncil.org