New York Times: 10 proposte per la pace fra Israele e Palestina
Dopo l'apertura il 7 ottobre 2023 della nuova fase della guerra in Terra Santa, sembra essere tramontata l'ipotesi dei "due popoli, due stati" che negli ultimi decenni si era arenata di fronte all'opposizione delle fazioni radicali tanto in Israele che in Palestina. Le due popolazioni, e la comunità internazionale, stentano a formulare nuove possibilità di pacificazione della regione. In questa situazione apparentemente bloccata, il New York Times, oltre alla copertura estensiva dell'evento con gravi rischi per i propri reporter, ha pubblicato quasi quotidianamente opinioni diverse su responsabilità stato della guerra e possibili vie d'uscita. Dopo molte polemiche, che anche su questo tema hanno diviso la redazione (vedi https://www.economist.com/1843/2023/12/14/when-the-new-york-times-lost-its-way?), da ultimo il giornale ha chiesto a una serie di opinionisti, leader politici ed esperti di politica internazionale di provare ad immaginare le possibilità di sfuggire all'apparente blocco della situazione, innescato dalla strage perpetrata da Hamas e dalla conseguente reazione Israeliana. Perché ci sono tre fatti certi: nell'area vivono dal 1946 due popolazioni; sino ad oggi nessuno ha ideato un piano di pace credibile; quando le armi finalmente taceranno, israeliani e palestinesi, insieme a tutto il resto del mondo, dovranno definire il loro futuro, più o meno comune.
Sul come, ecco le dieci proposte raccolte dal NYT
- Dare potere ai palestinesi
Peter Beinart, redattore capo di "Jewish Currents"
Per negoziare seriamente con Israele, i palestinesi hanno bisogno di leader legittimi e credibili, non come lo screditato presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas. Israele dovrebbe quindi lavorare per rinforzare il potere di altri credibili leader palestinesi (come Marwan Barghouti, attualmente detenuto in un carcere israeliano) non appartenenti ad Hamas. Sino al 7 ottobre il governo di Benjamin Netanyahu non ha in alcun modo cercato di avviare un simile processo.La prevalenza recente degli ultranazionalisti ebrei ha reso precario lo status quo raggiunto in passato nella gestione dei luoghi santi per le tre religioni monoteiste, e rallentato il riavvicinamento diplomatico con l’Arabia Saudita. Tutte cose improbabili se i palestinesi non saranno liberi.
Secondo i media israeliani, alcuni influenti capi palestinesi hanno proposto ad Hamas di aderire all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il gruppo ombrello che comprende diversi partiti palestinesi, a condizione che proceda al disarmo. Barghouti potrebbe supervisionare un simile processo, che aprirebbe la strada a un’OLP rinnovata e internamente democratica, che potrebbe stabilire una nuova direzione politica per il popolo palestinese. - Invio di una forza di interposizione NATO
Ehud Olmert, ex primo ministro di Israele
Una volta completata in tempi brevi la campagna militare volta a rimuovere Hamas dal potere e a distruggerne la capacità militare, le forze israeliane devono ritirarsi fino al confine di Gaza. A quel momento Israele dovrà dare al mondo un segnale chiaro cu ciò che intende fare dopo.
In attesa della fine delle operazioni militari Israele, gli Stati Uniti e i loro alleati devono concordare lo schieramento di una forza internazionale proveniente dai paesi della NATO, il cui dispiegamento deve essere concordato da Israele e dagli Stati Uniti e controllato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Si deve puntare sulla NATO e non sui caschi blu ONU perché gli stati musulmani ed in paricolare i paesi arabi, ben difficilmente saranno disposti a inviare loro truppe. Questo anche perché mentre quasi tutti gli stati musulmani osteggiano Hamas, che è una forza destabilizzante per i loro stessi governi, nessuno di essi può correre il rischio di passare per sostenitore della campagna militare di Israele.
La forza internazionale avrà la supervisione della ricostruzione, e dovrà creare una nuova amministrazione locale entro un periodo di 18 mesi , dotata di nuove autorità civili e di un sistema di auto governo nella Striscia di Gaza. - Creare le condizioni per un futuro economico
Raja Khalidi Direttore generale del Palestine Economic Policy Research Institute
Indipendentemente dall'esito della guerra in corso, è certo che i palestinesi dovranno avere la responsabilità di organizzare il governo della Striscia di Gaza e della Cisgiordania attraverso libere elezioni. L'OLP e la comunità internazionale restano orientati alla risoluzione pacifica del conflitto con lo schema dei due Stati. Dopo anni di conflitti anche sulle diverse visioni dell’economia palestinese, decisivo sarà definirne il quadro economico dopo la spartizione in due Stati. Ci sono tre tre fattori che vanno considerati qualunque sia la soluzione politica a Gaza: a) la popolazione di Gaza ha enormi bisogni di base e i fondi per intervenire i fondi sono già stati stanziati dalle Nazioni Unite (già versati 1,1 miliardi di dollari); b) prima di poter ricostruire ci sono compiti immensi come la rimozione delle macerie, la gestione dei corpi ancora sepolti nelle case distrutte, la riconnessione delle reti di servizi, la fornitura di spazi temporanei per i servizi pubblici e il riavvio dell'economia privata; c) ci sono due milioni di nuovi rifugiati, molti feriti e mutilati, tutti malnutriti e disumanizzati. Israele e altri paesi economicamente sviluppati dispongono di sistemi di protezione sociale in grado di far fronte alle enorme necessità di questa gente, ma senza uno Stato funzionante i palestinesi di Gaza avranno bisogno di un sostegno costante per riprendersi ed essere cittadini produttivi piuttosto che rifugiati indigenti.
Gli alleati di Israele e gli stessi stati arabi devono prendere atto del loro fallimento nell'impedire il ricorso alle armi, e pagarne il prezzo, finanziando per gli abitanti di Gaza un reddito di emergenza di base universale. Questo strumento ha già avuto successo in India, Kenya e Spagna, in particolare dopo la pandemia di Covid.Fornire un reddito mensile di base di 200 dollari a tutti i palestinesi di Gaza per un anno, fino a quando non potranno reintegrarsi produttivamente, richiederebbe quasi 5 miliardi di dollari. - Affidare al governo USA la soluzione del problema
Bernard Avishai autore di “La tragedia del sionismo” e Ezzedine Fishere, ex diplomatico egiziano e ONU
Dopo il 7 Ottobre, pur in presenza di stragi insensate, sia in Israele che nei territori palestinesi, ci sono maggioranze moderate ostaggio dai fanatici. Se Biden si impegnerà per una pace giusta, i moderati di entrambe le parti potranno prevalere. Biden gode di un grande prestigio in Israele ed ha anche credibilità presso i leader arabi, e l'impegno degli Stati Uniti può forzare una svolta politica in Israele, isolando gli estremisti. Da parte palestinese solo un processo di pace serio che metta fine all’occupazione israeliana potrebbe mettere fuori gioco Hamas. Gli Stati arabi possono in questo quadro diventare decisivi, facendo da garanti per la parte palestinese.
In una prima fase si dovrebbe realizzare il ritorno dei rifugiati palestinesi e indicare Gerusalemme come capitale dei due stati, ma unita amministrativamente; i Luoghi Santi sarebbero posti sotto il controllo di un'autorità internazionale, composta da Israele, Stato palestinese, Stati Uniti, Giordania e Arabia Saudita. Gli altri stati arabi (Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti) dovrebbero formare un’alleanza, una sorta di NATO araba, che sorvegli nei territori il rispetto dei confini e ricostituisca lo Stato palestinese sino alla supervisione di nuove elezioni. - Istituire un'amministrazione fiduciaria internazionale
Limor Yehuda, docente di diritto presso l'Università Ebraica, Omar Dajani Pacific University, John McGarry Queen’s University - Canada
La linea d’azione più credibile e meno studiata, è quella di un’amministrazione fiduciaria internazionale temporanea sotto un mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che comprenda Gaza e la Cisgiordania. Si tratta di uno strumento giuridico esistente nel quadro del diritto internazionale, con il vantaggio dell'automatica garanzia dell'adesione della comunità internazionale. Una amministrazione, però, più evoluta rispetto anche alle passate realizzazioni del periodo post coloniale (Sud Africa - Namibia) o di gravi crisi umanitarie locali (Kosovo). Solo l'azione della comunità internazionale nei territori può evitare l'estensione degli insediamenti israeliani ed allo stesso tempo togliere spazio ad Hamas favorendo l'evoluzione dello stato palestinese.
Oltre ai due stati locali andrebbero coinvolti nell'amministrazione fiduciaria Stati Uniti, Egitto, Giordania e un paese europeo, il tutto con una chiara leadership delle Nazioni Unite. I compiti principali dell’amministrazione fiduciaria sarebbero quelli di mantenere la sicurezza, facilitare la ricostruzione e sostenere lo sviluppo di istituzioni in grado di fornire servizi pubblici, tra cui sanità, istruzione, welfare e trasporti in Cisgiordania e Gaza. Inoltre dovrebbe orientare le istituzioni palestinesi verso una forma di governo davvero rappresentativa. Infine, ma di estrema importanza, gli amministratori fiduciari devono lasciare i territori non appena realizzati gli obbiettivi di base. - Prima di tutto lo Stato Palestinese a Gaza
Jerome M. Segal , International Peace Consultancy
Occore muovere un primo, decisivo passo per risolvere il conflitto israelo-palestinese: il passaggio immediato allo Stato palestinese, inclusa Gaza, con uno status bloccato per tre anni. Il vantaggio di questo approccio sarebbe duplice. Risolverebbe la questione postbellica per il territorio e aprirebbe la porta a una sovranità palestinese più ampia e a lungo termine. Solo uno Stato palestinese a Gaza, con un governo eletto, avrebbe la legittimità unica per imporre ad Hamas di deporre le armi. Solo detenendo il monopolio militare all’interno dei confini, la nuova leadership politica palestinese, potrebbe governare senza essere vista come il braccio armato dell’occupazione israeliana. L’idea di anteporre la nascito dello Stato palestinese alla soluzione del conflitto non è nuova: era nella road map del 2003, su proposta di George W. Bush e del del Quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Nazioni Unite e Russia), e includeva la creazione di uno Stato palestinese “con confini provvisori ” lasciando a successivi negoziati, mai veramente iniziati, le questioni fondamentali del conflitto, compresi i confini dello Stato, lo status di Gerusalemme e il destino dei rifugiati palestinesi. - Dare il ruolo guida alle Nazioni Unite
Emma Bapt e Adam Day, UN University Center for Policy Research
Le prospettive a Gaza dopo che Israele avrà terminato il suo contrattacco sono desolanti, perché i contendenti non sembrano disposti a cedere su nulla, malgrado l'altissimo prezzo pagato dalle popolazioni civili. Unica opzione sembra una transitoria presenza militare e amministrativa a Gaza, guidata dalle Nazioni Unite. La Germania ha lanciato l’idea, ma il segretario generale ONU, António Guterres, ha affermato che un protettorato delle Nazioni Unite non è la risposta a Gaza. Tuttavia, Gutierres ha lasciato aperto uno spiraglio affermando che la comunità internazionale “ha bisogno di entrare in un periodo di transizione”. Più che schieramento di caschi blu, l'ONU, mettere a disposizione di israeliani e palestinesi risorse esistenti: l’Agenzia delle Nazioni Unite (UNHCR), prima del 7 ottobre impiegava 13.000 persone a Gaza, che potrebbero essere riorientate sul terreno, come complemento alle forze militari fornite dai paesi vicini. In questo modo l'ONU fornirebbe i servizi civili, e gli arabi le forze militari e di polizia, almeno per un breve periodo dopo la fine della guerra. Un ruolo centrale potrebbe essere assunto dal Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per la pace in Medio Oriente che attualmente ha sede a Gerusalemme. Questa struttura potrebbe per conto della comunità internazionale supervisionare il periodo di transizione. Si tratta di trarre vantaggio dall'utilizzo di missioni esistenti e dotate di esperienza e conoscienza dell'area, anche se in passato dedicate ad altro compito. Una missione di transizione guidata dalle Nazioni Unite a Gaza può sembrare inverosimile, ma senza alternative plausibili, e visto lo spaventoso aumento di vittime a Gaza, diventa una possibilità da non sottovalutare. - Creare una Confederazione di due Stati
May Pundak associazione "A Land for All", e Dahlia Scheindlin autore di “Il legno storto della democrazia in Israele”
Le vite di israeliani e palestinesi, sono strettamente intrecciate. Entrambe le nazioni hanno forti legami emotivi, religiosi e culturali con la loro terra, ma nessuna delle due parti può possederla tutta. Di conseguenza, devono esserci due Stati sovrani, che non siano fondati sulla segregazione israelo-palestinese o ebraico-araba o su una spartizione violenta. L’accordo deve essere basato sul principio di uguaglianza individuale e collettiva.
Immaginiamo un quadro politico di due stati in un’associazione confederata: due stati sovrani, ciascuno con il proprio governo ma con istituzioni congiunte per una gestione amministrativa condivisa.
Palestinesi ed ebrei israeliani potrebbero vivere come residenti permanenti nell’altro stato, accettandone la sovranità e rispettandone le leggi. Godrebbero di uguaglianza e protezione ai sensi della legge e nessuna delle due parti stabilirebbe la superiorità di un gruppo rispetto a un altro. Ogni persona voterebbe solo nel paese di sua cittadinanza. Ci sarebbe libertà di movimento, come nella zona Schengen dell’Unione Europea. Gerusalemme rimarrebbe una città aperta e condivisa, capitale delle due nazioni. Il suo governo municipale dovrebbe garantire la rappresentanza a israeliani e palestinesi, fornendo nuovi incentivi per la partecipazione palestinese alle elezioni. C'è un precedente: per quasi 30 anni, Israele e l’Autorità Palestinese hanno condotto una cooperazione in materia di sicurezza in Cisgiordania, che ha ampiamente funzionato, sebbene non abbia fermato l'ampliamento degli insediamenti israeliani né il terrorismo palestinese. Ma é ora di riconoscere che la separazione completa è fallita, sia come obiettivo del processo di pace sia ovunque sia stata attuata concretamente. È tempo di sostituire la separazione con la partnership.
9. Costruire una cultura di pace
Sulaiman Khatib Combatants for Peace, e Avner Wishnitzer Università di Tel Aviv
Il percorso verso la pacificazione deve essere incorporato in un più ampio progetto di riumanizzazione: un processo diffuso per invertire gli effetti dell’oppressione, della violenza e dell'annientamento dell’altro, che si alimentano a vicenda da decenni. Lo abbiamo sperimentato grazie al nostro coinvolgimento nell'associazione Combattenti per la Pace, fondata da reduci palestinesi e israeliani, che dopo aver combattuto hanno deciso di deporre le armi. Sulla base di quasi due decenni di azione nonviolenta contro l’occupazione israeliana e le ideologie di odio palestinesi, ci rendiamo conto dell’importanza di valori e concetti condivisi.
Questo terreno comune deve basarsi sulla reciproca affermazione che entrambi i popoli hanno un passato e un futuro in questa terra e che nessuno di loro dovrebbe essere soggetto alla violenza o all’oppressione dell’altro. La riumanizzazione è, in altre parole, un progetto di liberazione. Dobbiamo costruire una cultura che attinga ad antiche tradizioni, come la sulha, un meccanismo tribale collaudato nel tempo per la risoluzione dei conflitti, e sviluppare nuovi modelli, ad esempio formando una rete di centri di pace nelle città israeliane e palestinesi. Ciò servirebbe a educare entrambi i cittadini sulla storia e la cultura dell’altra parte, a dare ai leader locali di competenze congiunte come la comunicazione non violenta. Abbiamo bisogno di strutture professionali aggregate, che riuniscano insegnanti, funzionari pubblici, uomini d’affari, medici e leader comunitari palestinesi. Congiuntamente dovranno discutere le questioni di reciproco interesse e praticare soluzioni unitarie per i problemi che riguardano entrambe le società. Per fare questo abbiamo bisogno del sostegno di gruppi che la pensano allo stesso modo in tutto il mondo e che sostengono la creazione di questa cultura di pace.
10. Lasciamo che siano i palestinesi a decidere
Diana Buttu avvocato, ex consigliere dell'OLP
Quando lavoravo nella delegazione palestinese nei negoziati sul disimpegno di Israele da Gaza, ci venne chiesto: cosa è necessario per rendere Gaza vivibile?
La nostra risposta fu: assicurarsi che la Striscia di Gaza non venga trasformata in una gabbia a cielo aperto. Questo non è stato fatto in passato, e anzi c'è stato il controllo israeliano sulle vite dei palestinesi, sostenuto anche dall’Occidente. Il futuro di Gaza, e della Cisgiordania, deve essere deciso dai palestinesi, altrimenti non c'è autodeterminazione. La comunità internazionale non deve continuare a mettere Israele al primo posto, come è stato fatto per decenni. I palestinesi devono vivere liberamente, senza la minima sensazione di un cappio israeliano al collo. Qualunque accordo immediato venga messo in atto dopo la fine dell’assalto israeliano a Gaza, deve essere accompagnato dalla fine del regime di oppressione di Israele ed essere accompagnato da misure per chiedere a Israele di rispondere di eventuali crimini di guerra commessi. Qualsiasi soluzione che non lo includa fallirà.
In una parola, i palestinesi chiedono solo una cosa: la libertà.
Le sintesi qui proposte sono riduttive, ma le argomentazioni, anche quelle più radicali e di parte, sono tutte meritevoli di attenzione. Sarebbe arbitrario cercare di trarne conclusioni definitive, o considerare queste opinioni esaustive sull'argomento. Tuttavia, uno sguardo d'insieme evidenzia come su 10 ipotesi, ben 7 si basano su qualche forma di intervento internazionale, 3 vedono nell'autonomia rafforzata dei palestinasi l'antidoto contro Hamas, 1 coinvolge esclusivamente il gendarme del mondo americano, che però è il considerato quasi unanimemente il perno di qualunque soluzione della crisi. Peraltro, nessuna delle ipotesi assegna un ruolo preminente ad Israele, che finisce così in apparenza per ricoprire la scomoda parte del protagonista relegato dietro le quinte. Nel cercare una conclusione si potrebbe dire che tocca alla comunità internazionale, dopo anni di trascuratezza, assumersi la responsabilità di risolvere un contenzioso che i contendenti non riescono più a gestire, nemmeno con la violenza delle armi. Possiamo prenderla come un'indicazione di massima ? Certamente no, si tratta solo di una semplificazione. Mentre, con buona pace dei nemici del concetto, la complessità della vicenda è tale che queste dieci ipotesi potrebbero persino essere tutte contemporaneamente applicate, come parte di un processo di pace che coinvolga attivamente a diversi livelli, tutte le potenze presenti o comunque impegnate nell'area. Una complessità il cui peso schiaccia in modo ancor più drammatico dal 7 ottobre scorso 9 milioni di israeliani e 4 milioni di palestinesi, che può essere alleviato forse davvero solo dal sostegno concreto della comunità internazionale, avendo come priorità la pace nella regione.
https://www.nytimes.com/interactive/2023/12/12/opinion/gaza-israel-palestinians-plans.html